Perché separare previdenza e assistenza è una prova di equità

Molto spesso nel dibattito sulla sostenibilità e l’equità dei sistema pensionistici pubblici si cita l’esempio dell’Italia come il Paese con la più alta spesa per pensioni e al tempo stesso con il minor impegno in termini di risorse dedicate a sostegno della famiglia, del reddito, dell’esclusione sociale e della casa rispetto alle altre realtà nazionali considerate nelle classifiche Eurostat e Ocse. Tuttavia un tema troppo spesso ignorato in queste comparazioni internazionali riguarda le voci che compongono la spesa per pensioni.

Nel caso dell’Italia, nei dati che vengono comunicati agli organismi internazionali sono comprese funzioni di spesa per protezione sociale che in realtà fanno capo all’ambito dell’assistenza e non esclusivamente a quello della previdenza, come fanno invece molti Paesi cui veniamo paragonati. Ad esempio, le integrazioni al minimo vengono imputate alla spesa per pensioni e non, come sarebbe corretto, alla voce “sostegno alla famiglia” o “esclusione sociale”.

Nel Quarto Rapporto su “Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2015”, curato dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali e presentato il 15 febbraio scorso alla Camera dei Deputati, la spesa per protezione sociale è stata riclassificata scorporando dalla spesa pensionistica la quota di trattamenti puramente assistenziali e le tasse, così da far emergere la cosiddetta “spesa pensionistica previdenziale”, che -a differenza della spesa assistenziale che è finanziata dalla fiscalità generale- è supportata da contributi realmente versati. 

In virtù di risultati che emergono dal Rapporto possiamo dire che separare previdenza e assistenza, oltre a far chiarezza sulle diverse voci che compongono la spesa pensionistica e a dimostrare che il bilancio previdenziale è in attivo, è una prova di equità per chi ha versato contributi e chi no. Vediamo con i numeri il perché.

Nel 2015 la sola spesa per pensioni (al netto della quota GIAS) è stata pari a 217.895 milioni di euro, con un aumento rispetto al 2014 dello 0,82%, a fronte di entrate contributive pari a 191.330 milioni di euro, segnando un incremento dello 0,91% rispetto ai 189.591 milioni del 2014 ed evidenziando così un saldo negativo tra contributi e prestazioni di 26.565 milioni.

Tuttavia sottraendo alla spesa pensionistica le imposte che lo Stato incassa direttamente (che quindi sono semplicemente una “partita contabile di giro”) il totale si riduce a 168.501 milioni che, al netto delle integrazioni al minimo, porta la spesa pensionistica previdenziale a 159.164 milioni.

Inoltre, se alle entrate contributive totali sottraiamo la quota GIAS e GPT a carico dello Stato, il totale delle entrate da contribuzione effettiva di lavoratori e datori di lavoro si attesta sui 172.214 milioni. Il saldo tra entrate e uscite rivela quindi un bilancio previdenziale in attivo pari a 3,713 miliardi, a dimostrazione del fatto che il nostro sistema, grazie alle numerose riforme che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni, è stato stabilizzato.

Ciò dovrebbe indurre a maggiore prudenza nel proporre tagli alle cosiddette pensioni d’oro, deindicizzazioni varie e contributi di solidarietà.

Dalla riclassificazione del bilancio statale emerge che nel 2015 la spesa per prestazioni sociali complessiva (pensioni, sanità e assistenza) è stata pari a 447,369 miliardi di euro, con un’incidenza del 54,13% sull’intera spesa pubblica, comprensiva degli interessi sul debito pubblico, che ha raggiunto i 826,429 miliardi, (il 59% al netto degli interessi); tale incidenza rispetto al PIL si attesta al 27,34%.

Per finanziare la spesa complessiva per welfare relativa all’anno 2014 (ultimo anno di cui si dispone del valore delle entrate tributarie, ma utile per poter replicare le stesse considerazioni sul 2015) -che è stata pari a 444,507 miliardi- occorrono oltre a tutti i contributi sociali per pensioni e prestazioni temporanee, quelli versati all’Inail, tutta l’Irpef (167,052 mld), l’Ires (32,357 mld), l’Irap (30,468 mld) e il 36% dell’Isos (10,063 mld). In pratica tutte le imposte dirette, per cui il resto della spesa pubblica è finanziato dalle sole indirette.

Ma chi paga l’Irpef e di conseguenza finanzia il welfare? Dall’analisi delle dichiarazioni Irpef 2015 emerge che i redditi dichiarati ammontano a un totale di 817,264 miliardi di euro, per un totale Irpef dichiarato pari a 167,052 miliardi.

Considerando il rapporto tra il numero dei cittadini italiani sul totale dei contribuenti (40.716 milioni), risulta che ogni contribuente ha in carico 1,49 cittadini. Si consideri, inoltre, che solo 30,7 milioni di cittadini su 60,8 milioni presentano una dichiarazione dei redditi positiva, pertanto quasi la metà degli italiani non ha reddito ed è quindi a carico di qualcuno.

Un dato preoccupante è che la gran parte dei 37 milioni di cittadini con redditi da zero a 20.000 euro annui lordi sono a quasi totale carico del 11,28% dei contribuenti (lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati) che dichiarano oltre il 52% di tutta l’Irpef.

Se si tiene conto dell’effetto Bonus da 80 euro di cui hanno usufruito 11.291.064 di contribuenti con redditi fino a 29.000 euro, il totale Irpef versato è appena di 160,976 miliardi euro e l’imposta media pagata per queste fasce di reddito si riduce da 54 euro a 40 euro per redditi fino a 7.500 euro, da 601 euro a 451 euro per quelli da 7.500 a 15.000 euro e da 1.665 euro a 1.469 euro per redditi da 15.000 a 20.000 euro.

Reddito complessivo in euro Numero contribuenti Numero versanti Ammontare % Ammontare Rapporto % con cittadini Ammontare procapite /1,493
zero od inferiore 694.480 0 0 0,00% 1,71% 0
da 0 a 7.500 9.436.027 2.453.971 823.563 0,49% 23,17% 58
Fino a 7.500 compresi negativi 10.130.507 2.453.971 823.563 0,49% 24,88% 54
da 7.500 a 15.000 8.584.180 6.692.218 7.707.746 4,61% 21,08% 601
da 15.000 a 20.000 6.104.263 5.820.012 15.176.044 9,08% 14,99% 1.665
da 20.000 a 35.000 11.304.079 11.182.232 55.610.973 33,29% 27,76% 3.295
da 35.000 a 55.000 2.909.996 2.900.254 31.533.017 18,88% 7,15% 7.257
da 55.000 a 100.000 1.259.277 1.256.664 27.952.255 16,73% 3,09% 14.866
da 100.000 a 200.000 345.778 345.229 16.071.241 9,62% 0,85% 31.128
da 200.000 a 300.000 46.696 46.631 4.314.319 2,58% 0,11% 61.877
sopra i 300.000 31.772 31.745 7.863.110 4,71% 0,08% 165.748
TOTALE 40.716.548 30.728.956 167.052.268 100% 100%  

Come si vede dalla tabella, partendo dagli scaglioni più alti, con redditi sopra i 300.000 euro troviamo solo lo 0,08% dei contribuenti (poco più di 31 mila) che pagano però il 4,7% dell’IRPEF complessiva (l’imposta media pagata da questo scaglione è pari a circa 3.000 volte l’importo medio versato da quelli che appartengono alla prima fascia di reddito); sopra i 200 mila euro, lo 0,19% che paga il 7,3% dell’IRPEF. Con redditi lordi sopra i 100 mila euro (meno di 52 mila netti) troviamo l’1,04%, pari a 424.000 contribuenti, che tuttavia paga il 16,9% dell’IRPEF. E così via, fino ad arrivare al risultato che il 46% dei cittadini paga solo il 5% del totale di imposta dichiarata.

A questo punto resta da chiedersi come coprire i 45,3 i miliardi di euro di costi del servizio sanitario e i 98 miliardi circa della spesa per assistenza, e come si potranno pagare le pensioni agli oltre 10 milioni di soggetti che non dichiarando nulla ai fini Irpef ovviamente sono anche privi di contribuzione. Più in generale, occorre riflettere sul fatto che finanziare il nostro generoso sistema di welfare sarà sempre più difficile nei prossimi anni.

Una soluzione più volte prospettata è il cosiddetto “contrasto di interessi”. Si tratta della possibilità di dedurre tutte le spese che le famiglie sostengono direttamente (quindi senza il tramite di un intermediario) per la manutenzione della casa, dei veicoli e dei piccoli interventi domestici per i quali la maggior parte delle volte si preferisce pagare in nero e ottenere così uno sconto immediato sul prezzo della prestazione.

Se, invece, ci fosse la possibilità di dedurre 5.000 euro al mese per queste spese (come quelle per l’idraulico, l’imbianchino, l’elettricista o il meccanico), si consentirebbe alle famiglie di guadagnare una “quattordicesima mensilità”, che nel caso di un’aliquota marginale IRPEF pari al 33% vale 1.650 euro!

Una soluzione non soltanto equa dal punto di vista fiscale e poco costosa per lo Stato e quindi per tutti noi, ma che si propone di incentivare il senso civico dei cittadini: ci ricordiamo sempre dei diritti dimenticandoci troppo spesso che abbiamo, anche e soprattutto, dei doveri.

In più a questo punto si potrebbe innescare un circolo virtuoso, perché con quel risparmio fiscale le famiglie potrebbero iniziare a pensare a qualche tutela aggiuntiva, come ad esempio l’assistenza sanitaria integrativa, che a sua volta è agevolata fiscalmente. Se riunissimo in un unico plafond di deducibilità i 5.164,57 euro della previdenza complementare e i 3.600 della sanità integrativa, le famiglie avrebbero a disposizione circa 9.000 euro all’anno per le diverse forme di welfare da sfruttare a seconda dei propri bisogni!

L’insieme di queste due proposte (il contrasto d’interessi e il plafond unico di deducibilità) rappresenta una vera e propria riforma fiscale. Chissà se in un Paese come il nostro si avrà mai il coraggio di attuarla.

* Presidente del Centro di Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali