Roberto Crapelli: fast, disruptive and destructive

L’Industry 4.0 non è soltanto un cambiamento dirompente delle tecnologie produttive, ma anche, e soprattutto, una profonda modificazione delle competenze.

Appare chiaro, parlando con Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia, che “non sarà una questione di essere giovani o vecchi, di essere rottamati o meno. Nel breve tempo, i titoli che diamo ai lavori cambieranno”.

Ingegner Crapelli, nel “Think Act” prodotto da Roland Berger, una sorta di pioneristica summa dell’Industry 4.0 europea, si legge che le rivoluzioni sono “fast, disruptive and destructive”, cioè veloci, dirompenti e distruttive.

L’Italia a che punto è di questo processo?

Siamo ancora nella fase fast, mentre quella disruptive e, men che meno, quella destructive sono ancora lontane da venire. Soprattutto perché manca un cambiamento di strutture nelle piccole e medie imprese. Questo non è necessariamente un male, ma nessuna famiglia di imprenditori italiani è oggi disposta a passare la mano, anche perché non esiste un mercato dei capitali efficiente.

A questo proposito, come valuta esperienze come l’AIM, l’Alternative Investment Market italiano?

Il mercato dei capitali avrebbe un grande spazio per svilupparsi, sia per quanto riguarda il debito, sia per quanto riguarda l’equity. Il problema, però, è che manca completamente la cultura: come fa un fondo d’investimento a portare denaro in Italia in un’azienda che non ha rating o che realizza il bilancio solo perché c’è l’obbligo di depositarlo alla Camera di Commercio? Servirebbero degli intermediari: gli strumenti ci sono, come nel caso dei minibond cartolarizzati o della finanza ibrida.

In un recente convegno organizzato dal Sole 24 Ore, il suo speech era intitolato “Industry 4.0: per portare nuova finanza alla crescita delle piccole-medie imprese”. Ci può spiegare meglio la correlazione?

Una PMI è già capace di trovare la finanza di cui ha bisogno. Però, il mercato di capitali è necessario per aumentare la dimensione delle PMI. Se la finanza riuscisse ad avere le corrette condizioni per entrare, riusciremmo a modificare dimensionalmente le nostre PMI. D’altronde, la crescita delle imprese = progettualità x capitale.

Il vostro studio mette l’Italia tra gli “Hesitators” quanto a capacità di realizzare pienamente la rivoluzione 4.0, la quale richiederebbe un investimento complessivo pari a 2.900 miliardi entro il 2030. È una stima che si sente di confermare e quanta parte spetta al nostro Paese? 

La cifra di 2.900 miliardi fino al 2030 è confermata, solo che noi eravamo convinti che avremmo avuto una curva esponenziale, con investimenti più consistenti tra almeno dieci anni. Invece stiamo assistendo a un procedimento inverso, con una concentrazione di denaro molto superiore in questi anni rispetto a quanto verrà destinato nell’ultima parte del periodo in questione.

L’Italia è pienamente in scia, anche perché ha un target ben preciso: tra il 2001 e il 2011 la ricchezza prodotta dal manifatturiero è passata dal 20 al 16% del PIL, appena un punto percentuale al di sopra della media europea. Si vuole ritornare ai livelli di inizio Millennio.

La Germania – unico paese ad avere incrementato l’incidenza del comparto – è passata dal 22 al 23%. E si prepara a investire almeno 45 miliardi all’anno da qui al 2030. L’Italia, invece, dovrebbe riuscire a mettere sul piatto 225 miliardi complessivi, ovvero 15 miliardi circa all’anno. 

L’Italia è agli ultimi posti europei per connettività mobile per motivi di business (20% del totale contro il 44% dei finlandesi). È solo un problema infrastrutturale o c’è da cambiare anche la cultura delle aziende?

Sicuramente non è un problema infrastrutturale: con Telecom, Enel e Fastweb abbiamo un’offerta di fibra ottica competitiva. Il problema è che non c’è una domanda precisa: una media impresa, diciamo con 100-150 milioni di euro di fatturato, utilizza ancora i vettori tradizionali, non c’è ancora stato un cambiamento culturale che faccia capire il cambio di paradigma.

E dal punto di vista della PA?

La verità è che c’è ancora molto da fare. Certo, qualche amministrazione cerca di mettere in risalto i “gioielli della corona”, ma è innegabile che un cittadino con cultura digitale medio-bassa debba avere a disposizione strumenti più semplici che gli consentano, comunque, di ottenere ciò che necessita senza doversi recare nella sede del Comune o dell’ente. 

Le nuove professioni correlate alla quarta rivoluzione industriale, dalla cybersecurity alla logistica 4.0, necessitano di adeguati percorsi formativi: il sistema scolastico e di avviamento al lavoro del nostro paese è al passo con i tempi? Quali nuovi rapporti si possono instaurare tra pubblico e privato?

Il decreto del ministro Calenda prevede la creazione di centri d’eccellenza, la partecipazione di università che creino dei corsi e dei percorsi di studio. Piuttosto bisogna mettersi in testa che il grande cambiamento avviene nell’impresa. Il digitale non si può imporre, è necessario convincere le figure con maggiore seniority che la trasformazione in atto è benefica per le sorti dell’azienda. E poi farli diventare i migliori professori per le nuove leve. 

Che ruolo devono giocare i manager in questo nuovo scenario globale?

Non sarà una questione di essere giovani o vecchi, di essere rottamati o meno. Nel breve tempo, i titoli che diamo ai lavori cambieranno: il direttore marketing non passerà le giornate a guardare le ricerche di mercato, ma a come vengono profilati i clienti. Il direttore di produzione probabilmente cambierà nome e cercherà di rispondere il più velocemente possibile alle richieste del cliente. Il direttore HR avrà da lavorare moltissimo per trovare i nuovi specialisti. Quello che ancora non sappiamo è se gli head hunter si sono già attrezzati per le nuove esigenze.

Allargando il campo d’indagine, che ruolo possono giocare i paesi in via di sviluppo che oggi hanno una quota pari al 40% dell’economia industriale globale?

Si tratta di un’industria legata esclusivamente al basso valore della manodopera. I paesi in via di sviluppo cercano ancora di fare un po’ tutto, senza specializzarsi. La Cina, invece, è un caso a sé: ha una manifattura simile alla nostra 20-25 anni fa, ma ha anche le risorse per compiere il salto verso l’Industry 4.0. Solo che non ha domanda interna, e preferisce concentrarsi sul suo incremento piuttosto che divenire fornitore privilegiato puntando esclusivamente sull’export.

Marco Scotti, giornalista