Una miniera d’oro

L’uguaglianza di genere come motore dell’economia. Ecco quanto costa la disparità di trattamento in termini di Pil, occupazione, consumi. Progetto Manager incontra due esperti del tema.

L’uguaglianza non è solo una questione morale. Aumentare l’occupazione femminile e diminuire la differenza di retribuzione rispetto agli uomini, porterebbe dei benefici concreti a tutta la società. Lo dimostrano diversi studi.

Secondo l’Eige, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, maggiore parità tra uomini e donne avrebbe un forte impatto sul prodotto interno lordo dell’intera Unione europea, porterebbe a livelli più alti di occupazione e produttività e potrebbe rispondere alle sfide legate all’invecchiamento della popolazione. In termini molto concreti, entro il 2050, aumentare l’uguaglianza di genere contribuirebbe a una crescita del Pil pro capite nell’Ue tra il 6 e il 9,6%, un aumento che va da 1,95 a 3,15 trilioni di euro.

«Nel momento in cui le donne iniziano a lavorare, le famiglie di cui prima si prendevano cura, hanno bisogno di altre persone e di altri servizi», spiega la professoressa Azzurra Rinaldi, direttrice della School of gender economics dell’università degli studi di Roma Unitelma Sapienza. In sostanza: si crea lavoro. «Quando una donna esce di casa per lavorare – spiega sempre la professoressa Rinaldi – si creano tre posti di lavoro: il suo e quello di altre due persone. Quindi c’è un effetto moltiplicativo sul prodotto interno lordo».

Tanto che per l’Italia sarebbe sufficiente occupare il 60% delle donne in età lavorativa per far aumentare il Pil del 7%, lo stimava già anni fa, nel 2013, un rapporto della Banca d’Italia.

A questo si aggiunge un altro fattore: «Quando si produce reddito una parte rientra nel prelievo fiscale che poi alimenta le casse dello Stato. Il bilancio ne beneficerebbe con un effetto finale complessivo: più servizi e di migliore qualità, quindi una prospettiva di maggiore benessere. E crescita demografica – conferma la professoressa Rinaldi – i dati per i Paesi ricchi ci dicono che dove il tasso di occupazione femminile è più alto, lo è anche la natalità».

Per l’Italia sarebbe sufficiente occupare il 60% delle donne in età lavorativa per far aumentare il Pil del 7%, lo stimava già nel 2013 un rapporto Bankitalia

Ma raggiungere l’obiettivo in Italia non è facile. Soprattutto considerando che partiamo molto indietro. Secondo un dossier del Servizio studi della Camera, il nostro Paese è l’ultimo nell’Unione europea per il tasso di occupazione femminile: siamo di 14 punti percentuali sotto la media (55% contro 69% in Ue). Una donna su cinque, inoltre, finisce per lasciare il lavoro dopo la maternità. Nella maggior parte dei casi, lo dicono i dati, questo avviene per la difficoltà di conciliare carriera e famiglia. Una situazione che migliora, decisamente, all’aumentare del livello di istruzione: a un percorso di studi più completo corrisponde una minore differenza occupazionale tra madri e non madri.

Per quanto riguarda i salari, qui il divario si misura in modo tangibile: le donne guadagnano in media 8 mila euro in meno all’anno. Lo ricorda sempre il rapporto del Servizio studi della Camera citando dati Inps. Nel 2022, la retribuzione media annua per gli uomini è stata di 26.227 euro, contro i 18.305 per le donne. Una disparità evidente.

«Qualunque forma di discriminazione è sub efficiente, ce lo dicono studi trasversali» spiega la professoressa Rinaldi: «aziende in cui non ci sono discriminazioni hanno migliore riuscita sul mercato e tassi di crescita più elevati». Anche in questo caso, le ragioni sono diverse. Una è la motivazione dei lavoratori, anzi, delle lavoratrici: «Se una donna è brava come un collega uomo ma viene pagata di meno, produrrà in meno. Inoltre, una persona più preparata ma cui vengono offerte meno opportunità è una risorsa sottoutilizzata». Insomma, uno spreco per l’azienda.

Lo ribadisce anche un altro economista, Carmine Soprano, esperto in tematiche di genere e politiche pubbliche: «Secondo uno studio McKinsey, le imprese con più diversità, inclusa quella di genere, possono arrivare ad avere profitti più alti del 25%».

Anche la violenza di genere, inoltre, è un freno alla crescita. «Ha un costo molto tangibile per la società – spiega l’economista -. Sconfiggerla è un imperativo morale, ma anche economico» dice Soprano. «Il fenomeno ha costi diretti e indiretti. I primi sono quelli per l’assistenza sanitaria, psicologica, i costi penitenziari per i colpevoli e quelli per la protezione dei minori. I secondi, quelli indiretti, sono legati a una minore produttività del lavoro dovuta a traumi che in casi estremi possono portare ad assenze o addirittura abbandono di un impiego. Una perdita per l’economia – spiega – che in Italia vale miliardi di euro ogni anno».

Contrastare la violenza di genere vorrebbe dire anche avere più fondi da spendere per altre politiche che promuovano la parità.

«È uno dei fronti su cui in Italia si potrebbe fare di più», spiega l’economista, «ma si dovrebbe lavorare anche per promuovere l’istruzione e l’occupazione femminile e garantire migliori politiche di genitorialità».

Per esempio, se le donne laureate sono tante, quelle che scelgono le materie scientifiche, più richieste dal mondo del lavoro, sono ancora poche. Nei corsi di laurea di facoltà tecniche, ingegneristiche e matematiche sono il 40% e il dato in 10 anni non è aumentato secondo l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca.

Mentre per quanto riguarda l’occupazione femminile, ci sono sgravi, rinnovati anche con l’ultima legge di Bilancio ma, spiega Soprano: «si potrebbe fare di più, la decontribuzione vale per chi assume donne con 3 o più figli, e in Italia la media è molto inferiore».

Nelle facoltà tecniche, ingegneristiche e matematiche le laureate sono appena il 40% e negli ultimi dieci anni il dato non è aumentato

E poi le politiche di genitorialità: «In Italia – ricorda ancora l’economista – il carico del lavoro di cura pesa molto di più sulle donne. In altri Paesi, come in Svezia, ci sono in tutto 480 giorni distribuiti all’interno della famiglia e i due genitori li possono scambiare tra di loro, e questo sicuramente può essere un incentivo al lavoro femminile». E uno spunto di riflessione per la politica e per le aziende.

Anche per ricordare che l’occupazione femminile può essere una miniera d’oro, ma in Italia c’è ancora da scavare.

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