Il nostro Paese ha ed avrà ancora di più nei prossimi mesi un bisogno immenso di crescita economica. Non solo per mantenersi stabile socialmente ma anche finanziariamente: una crescita solida è senza dubbio l’unico modo credibile per garantire infatti anche la discesa del rapporto debito pubblico su Pil.
Il Recovery fund doveva raggiungere proprio questo fine, dare garanzia di stabilità sociale e finanziaria, tramite il finanziamento di maggiori investimenti pubblici. Ma qualcosa sembra non stia funzionando perfettamente, almeno se consultiamo il documento fondamentale per capirne di più, la nota di aggiornamento al Def recentemente pubblicata dal ministero dell’Economia e delle finanze. Questa include infatti tre informazioni chiave: la posizione per il 2021-2023 del Governo stabilita con il Def in aprile, gli effetti aggiuntivi della manovra per il 2021 sul triennio e, infine, il contributo per gli anni 2021-23 dei fondi europei del Recovery. L’analisi complessiva di queste tre dimensioni ci dice della posizione fiscale del Governo e di come questa impatta sull’economia.
Cominciamo subito dalla questione dei fondi europei – più semplice da capire ma anche capace di sollevare perplessità – che si suddividono in trasferimenti a fondo perduto e in prestiti a tassi vantaggiosi. I primi sono pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: 0,8, 1 e 1,5% di Pil circa. L’effetto stimato, ancora per il triennio, di crescita economica in più è pari rispettivamente a 0,3, 0,4 e 0,8%, con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa pubblica inferiore dunque allo 0,5. Numero che non è foriero di buone notizie: da un moltiplicatore degli investimenti pubblici ci si aspetta che sia almeno pari ad 1, e un valore così basso non può che voler dire che i fondi Ue a fondo perduto non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore per la crescita, nell’accumulazione di capitale fisico ed immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti.
Invece di fare di quei 62 miliardi 10 progetti da 6 miliardi in 10 settori strategici decidendo dall’alto quali questi siano (un suggerimento? Edilizia scolastica, carceraria, antisismica; dissesto idrogeologico; porti; manutenzione stradale; alta velocità; infrastrutture idriche; capacità delle stazioni appaltanti; banda larga), si paventa il rischio che se ne facciano 1.000 da 60 milioni, sperperandoli.
Si può scegliere se utilizzare i 62 miliardi in 10 progetti strategici da 6 miliardi ciascuno oppure farne 1.000 da 60 milioni, sperperandoli
Passiamo ai prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari a 11, 17,5 e 15 miliardi di euro. Una bella cifra. Purtroppo una buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi progetti di investimenti ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste. Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi.
Qualcuno potrebbe dire che vanno a finanziare comunque maggiori investimenti pubblici già previsti da questo Governo, ma il Def di aprile non lascia scampo nemmeno a questo riguardo: l’aumento di investimenti pubblici dal 2020 è di 3 miliardi per il 2021, altri 3 in più per il 2022 e un calo di 1 miliardo nel 2023. Bazzecole, se pensiamo alla crisi in cui ci dibattiamo.
L’aumento di investimenti pubblici è di 3 miliardi per il 2021, altri 3 in più per il 2022 e un calo di 1 miliardo nel 2023. Bazzecole
C’è un ultimo aspetto che va considerato, e che rimane quello più importante. Questa manovra è stata “venduta” come manovra espansiva, di supporto all’economia. Ma lo è solo rispetto a quanto deciso in primavera nel Def; se guardiamo piuttosto alle scelte complessive del Governo, includendo quelle decisioni, vediamo che – in tempi di Covid! – la posizione del Governo rimane molto restrittiva. Meno austera di qualche mese fa, ma pur sempre molto austera. Basterà lasciar parlare i numeri per dimostrarlo. Il disavanzo primario (spese pubbliche senza includere gli interessi meno entrate fiscali) dal 2020 al 2023 è previsto scendere da 120 miliardi di euro di quest’anno a … zero, portando il bilancio primario in pareggio. Se questo numero può essere ingannevole perché include anche l’aumento di entrate fiscali dovute alla ripresa dell’economia, basterà allora guardare a cosa avviene al deficit strutturale programmato – che corregge per questi effetti non dipendenti dalla volontà del Governo: esso passa dal 6,4% del Pil quest’anno al 3,5% del 2023, una restrizione volontaria di 1% di Pil circa l’anno… in tempi di Covid!
Insomma, invece di confermare e stabilizzare il deficit al livello odierno per tutto il triennio e utilizzarne le risorse per fare investimenti pubblici e invece di dedicare le risorse europee a massimizzare i progetti che generano crescita, ci ritroviamo con una programmazione austera e male allocata, in quella che è la maggiore crisi economica del dopoguerra. E perché mai? Per quanto riguarda l’austerità è semplice, basta tornare ai numeri finali del 2023, quell’avanzo primario in pareggio e quel deficit su Pil che tocca la soglia “critica” del 3% del Pil su cui si è costruita la logica del mai abolito e austero fiscal compact.
Non sono infatti numeri casuali: sono frutto di quella promessa che il Governo italiano ha fatto, implicita nell’accordo sottostante al Recovery fund, che l’Italia accede a questi fondi purché … si cimenti nell’austerità richiesta dall’Europa appena fuori dal Covid. Con una mano si dà, con l’altra si leva.
Cosa si leva? La crescita. Una crescita economica prorompente che non solo avrebbe stabilizzato socialmente il Paese ma anche permesso di ridurre il rapporto debito-Pil ben di più del magro 6,5% previsto dal Governo (dal 158% al 151,5%).
Per quanto riguarda poi la scarsa attenzione agli investimenti pubblici, è solo una conferma di una tutta nostra politica ultradecennale di indifferenza verso le future generazioni, che in fondo non votano.
Un ultimo inciso: se il Governo ha così tanto timore di utilizzare le risorse prese a prestito, appare come irrilevante davvero – se non dannoso – parlare ancora di ottenere i fondi Mes: se questi poi vengono usati per acquistare quanto sarebbe stato acquistato comunque, ottenendo qualche spicciolo in più di mero risparmio di interessi a fronte di una promessa di futura austerità, tanto vale dire che Bruxelles non vale proprio una MESsa.