Serve un’Europa più coraggiosa

Con Matteo Matarazzo della Cec, l’organizzazione che rappresenta un milione di manager europei, affrontiamo il fenomeno coronavirus dalla prospettiva comunitaria

A Bruxelles il coronavirus non fa troppa paura. Tutto scorre come d’abitudine, salvo qualche accortezza aggiuntiva stabilita dalle autorità europee in via precauzionale. Non si sono fermate le imprese, i traffici aerei né le diplomazie. È nel suo ufficio anche Matteo Matarazzo, che da sette anni è Head of office di Cec european managers, l’organizzazione che raggruppa i manager europei. Un lavoro di complessa mediazione tra le esigenze delle confederazioni nazionali e quelle delle organizzazioni di settore, alla ricerca della sintesi condivisa che parli a nome di 1 milione di manager europei.

Il caso della dirigente della multinazionale tedesca in Baviera e la ricerca del “paziente zero” nel lodigiano hanno spinto la categoria dei manager sotto i riflettori mediatici della cronaca sul coronavirus. Dottor Matarazzo, vogliamo fare chiarezza?

I manager sono i lavoratori con i tassi di mobilità tra i più elevati delle varie categorie professionali. Qualsiasi fenomeno che limita la circolazione delle persone, sia esso il coronavirus, il deterioramento di una relazione bilaterale o la recrudescenza di nazionalismi economici, ha nei dirigenti le prime vittime. Non mi ha stupito che, in mancanza di una casistica attendibile, si sia rafforzata la tendenza a stigmatizzare il ruolo e la funzione del dirigente che gira per il mondo ed espone al contagio. I casi di cronaca in Germania e Italia dimostrano che i manager europei sono attori economici che risentono direttamente della situazione attuale e, mi consenta, anche di un certo accanimento.

 

Matteo Matarazzo, che da sette anni è Head of office di Cec european managers

 

A Bruxelles come va?

Rispetto agli altri paesi europei, qui l’opinione pubblica ha per il momento una limitata percezione del rischio diffusione della malattia e del relativo impatto sociale. Credo che le conseguenze economiche non siano da sottovalutare e il management lo sa prima di tutti, dato che cura le relazioni commerciali.

Negli ultimi anni l’economia dell’area è cresciuta in media meno del 2% annuo. Le stime sul 2020 non erano positive, anche prima di questa emergenza. Secondo lei ci dobbiamo aspettare una frenata ulteriore del Pil europeo?

L’impatto economico del coronavirus sarà notevole su un continente che non va malissimo, ma deve gestire scarti significativi tra paesi a diversa velocità. L’Italia si trova agli estremi più bassi della forchetta. Scontiamo un approccio europeo che è stato sin dall’inizio forse troppo rigoroso nella politica di concorrenza e nel difendere il principio di salvaguardia; di fatto ciò ha impedito alcune operazioni di sinergia industriale e forme di consolidamento degli attori di mercato che avrebbero aiutato, liberando risorse per essere più competitivi in termini di ricerca e sviluppo, per esempio. Oggi non abbiamo grandi “campioni” europei ma tantissime piccole e medie imprese. La politica di concorrenza non può essere la stessa di 30 anni fa, quando si dovevano salvare settori improduttivi. Dobbiamo poter giocare ad armi pari in un mercato globalizzato.

Quali sono i settori produttivi più esposti al rischio del raffreddamento delle relazioni con la Cina?

Anzitutto la componentistica di base, dato il maggior tasso di dipendenza. Ricordiamoci che la Cina contribuisce a tutte le catene globali, da quelle a minor valore aggiunto a settori come medicale, chimico-farmaceutico, applicazioni avanzate in campo biomedico. Inevitabile anche l’effetto sul comparto del lusso, dell’agroalimentare e del turismo, rispetto ai quali il Paese asiatico costituisce il più grande mercato di consumo.

Tutti i settori sono dipendenti dal mercato cinese. I più colpiti: componentistica di base, medicale, chimico-farmaceutico, lusso, agroalimentare e turismo

I mille miliardi di euro del Green deal promessi da von der Leyen daranno respiro?

Anche rispetto a questa tematica, dipenderà dalla capacità dell’Ue di far propria la riconversione green e da quanto sarà in grado di rispettare la visione strategica 2050 di un’Europa a neutralità carbonica. A marzo si conosceranno i dettagli dell’orientamento di politica strategica perché ancora non è chiaro in che misura la riconversione ambientale toccherà i settori della produzione energetica, ad esempio, né come si procederà verso l’uscita dalle fonti fossili. Siamo indietro sullo stoccaggio, indietro nella ricerca delle nuove batterie per lo sviluppo dell’elettrico, indietro su alcune tecnologie come la potenza di calcolo dei “super-computer” e i big data. L’Ue sarà coraggiosa? Questa è la vera domanda.

Anche ai manager è richiesto più coraggio?

La nostra Confederazione sta insistendo molto sulla formazione, e non solo sui temi della sostenibilità. Tutti i nostri membri condividono l’idea che è in atto un cambio di ruolo: al manager è richiesta una visione, la capacità di mettere in rete le competenze, di motivare l’équipe di lavoro. La massimizzazione del profitto a brevissimo tempo non è più il suo obiettivo fondamentale. È sovvertito l’approccio verticistico, quello che impostava la struttura dell’impresa in modo gerarchico.

Con quali conseguenze?

Il manager quindi ha bisogno di una preparazione più trasversale per comprendere in modo estremamente rapido le conseguenze delle decisioni che prende. La variabilità e l’impredicibilità costituiscono ormai elementi obbligatori per chi riveste funzioni apicali. Non esistono più le fatalità. Il rischio è entrato nell’esercizio di valutazione degli obiettivi realistici dell’impresa. Quindi, serve maggiore attenzione a saper collegare i fili di eventi e fenomeni che esulano dalla gestione quotidiana. Tutto questo in un contesto ancor più complesso che vogliamo sia sostenibile sia verso se stessi, costruendo benessere sul lavoro e capacità di resilienza rispetto agli stimoli veloci, sia verso l’esterno, come responsabilità manageriale nel lungo periodo in termini sociali e ambientali. In un contesto in cui i fondamenti cambiano così velocemente, servono competenze manageriali sistemiche.

Non esistono più le fatalità. Il rischio è entrato nell’esercizio di valutazione degli obiettivi dell’impresa

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