In materia pensionistica, nella legge di bilancio 2017, sono stati inseriti due importanti provvedimenti: APE e RITA. In effetti, di pensionistico, entrambe hanno ben poco. Si tratta di strumenti per sostenere il reddito di coloro che a 63 anni si trovano nella condizione di non lavorare e di non avere ancora maturato il diritto alla pensione.
APE è, a tutti gli effetti, un prestito di un istituto finanziario che viene erogato tramite l’INPS in quote mensili, per il periodo che va da quando si presenta la domanda (non prima dei 63 anni), fino al pensionamento effettivo. Il prestito viene restituito poi con una decurtazione della futura pensione.
Diverso discorso per l’APE sociale che, per situazioni di particolare disagio, pone a carico dello Stato l’onere dell’anticipo pensionistico.
La RITA è una Rendita, quindi un pagamento frazionato nel tempo; Integrativa, in quanto va ad attingere alla posizione di previdenza complementare; Temporanea e Anticipata perché limitata al periodo ante pensione.
La RITA, in altri termini, consiste nell’erogazione del montante accumulato presso il fondo pensione, in forma frazionata.
Può essere chiesta l’intera posizione accumulata o una parte; in quest’ultimo caso, il residuo continua a essere gestito dal fondo pensione nei comparti di investimento e sarà liquidato in prestazione con le diverse modalità previste nell’ambito della previdenza complementare. Il frazionamento va, appunto, dall’accettazione della domanda da parte del fondo alla maturazione del diritto alla pensione.
Può usufruire della RITA, a decorrere dal 1° maggio 2017, chi ha risolto il rapporto di lavoro e maturato il diritto all’APE, certificato dall’INPS.
A prescindere dal periodo nel quale è maturato il montante, alla RITA si applica una ritenuta a titolo d’imposta al massimo del 15% che si può ridurre, in base all’anzianità di iscrizione alla previdenza complementare, fino ad arrivare al 9%.
L’imponibile, come per le prestazioni pensionistiche, non è l’intero montante accumulato ma solo la parte che non è stata tassata in precedenza; in buona sostanza i contributi annualmente dedotti e la quota di TFR.
Il trattamento fiscale particolarmente favorevole riservato alla RITA dimostra l’attenzione del legislatore a sostenere chi, per effetto della riforma pensionistica del 2011, ha visto allontanare il momento del pensionamento e che, anche a seguito della crisi economica, può trovarsi senza reddito.
In questo senso la RITA si pone come uno strumento per traghettare le persone al pensionamento, senza incidere sul bilancio dello Stato perché interamente a carico del risparmio previdenziale personale.
Nel periodo di crisi che abbiamo attraversato, chi ha perso il lavoro ha utilizzato il riscatto della posizione di previdenza complementare – sostenendo un maggior peso fiscale – come ammortizzatore.
Con la RITA questo ruolo viene rafforzato e incentivato fiscalmente, favorendo chi è vicino alla pensione.
Una finalità sociale di tutto rispetto ma comunque diversa da quella assegnata ai fondi pensione, cioè l’integrazione della pensione.
Distrarre risorse da questo fine può funzionare oggi: i livelli delle pensioni INPS, anche per la presenza di una quota di “retributivo”, consentono ancora di disporre di un reddito decoroso per la vecchiaia.
Negli anni a venire, aumentando il peso del sistema “contributivo”, sarà necessario che alla pensione si aggiunga stabilmente la prestazione del fondo pensione.
I futuri pensionati potranno permettersi di rinunciare all’integrazione? Probabilmente no: prima di cedere alle lusinghe della RITA occorrerà valutare attentamente quale sarà il futuro reddito di pensione e se sarà sufficiente in un periodo della vita nel quale la tranquillità economica è un obiettivo irrinunciabile.
Nel breve RITA può essere una soluzione ma, guardando avanti, i fondi pensione debbono tornare a svolgere il ruolo per il quale sono stati istituiti. Sarà con questo spirito che RITA – come APE – è stata prevista, in via sperimentale, fino al 31 dicembre 2018?
* Direttore Generale Previndai