Quale opzione donna

Per garantire un futuro previdenziale sostenibile, deve crescere la partecipazione attiva delle donne al lavoro. È l’unica riforma utile, non certo inasprire i requisiti per andare in pensione.

È ormai storia che le donne nel 2011 abbiano pagato il prezzo di gran lunga più alto per salvare il Paese dal rischio default.

Con la riforma delle pensioni varata dal governo Monti (l. 214/2011), si sono viste equiparare i requisiti pensionistici di vecchiaia a quelli degli uomini, nonostante le loro condizioni socioeconomiche nel mercato del lavoro siano assai diverse, in un Paese che è agli ultimi posti in Europa sia in termini di tutela della maternità sia per servizi offerti alla famiglia.

A poco conta l’anno in meno previsto per l’accesso alla pensione anticipata, ovvero 41 e 10 mesi per le donne in luogo dei 42 e 10 previsti per gli uomini, perché l’analisi dei dati delle pensioni in pagamento ci restituisce una realtà netta: alla pensione anticipata, che si caratterizza per un importo degli assegni mediamente più elevato, accedono soprattutto i lavoratori maschi, mentre la pensione di vecchiaia, più povera, è la più utilizzata dalle donne.

A questa realtà contribuiscono fattori diversi: il minor numero di anni di carriera, la maggiore discontinuità lavorativa, l’abbandono precoce dell’impiego per attività di cura parentale e una retribuzione che ancora oggi presenta un dislivello inaccettabile.

Il processo di minor tutela previdenziale delle donne, cominciato nel 2011 con la legge Fornero, è proseguito con le modifiche subite dalla cosiddetta “opzione donna” che consentiva, con 35 anni di contributi, un accesso anticipato alla pensione.

Tale misura negli anni ha subito un restringimento della platea delle potenziali beneficiarie fino ad arrivare all’ultima legge di Bilancio che ha imposto requisiti così stringenti da ridurre a poche migliaia le donne che potranno accedervi.

Limiti più cogenti imposti a una misura che già di suo presentava evidenti svantaggi per le donne che vi ricorrevano, in ragione del passaggio obbligato al calcolo contributivo. Eppure studi sociologici indicano che le donne che ricorrono all’accesso alla pensione con opzione donna lo fanno, più che per scelta, per sopperire alle carenze del sistema di welfare.

Unica sopravvivenza di riconoscimento della peculiarità del lavoro femminile resta una norma, peraltro poco conosciuta e talvolta denegata anche dall’Inps, che consente alle donne di poter anticipare nel massimo di un anno la pensione di vecchiaia. Tale norma si applica però solo alle donne che accedono con il sistema contributivo puro o che scelgano il computo in gestione separata, e prevede 4 mesi di sconto per ogni figlio fino a un massimo di 12 mesi.

Si tratta sicuramente di un riconoscimento dell’attività delle lavoratrici madri, ma rappresenta al tempo stesso una misura troppo parziale perché è limitata al sistema contributivo e non considera il ruolo olistico di cura parenterale svolto anche nei confronti delle persone anziane e/o fragili.

Finché non si arriverà a una egualitaria distribuzione delle opportunità lavorative, il gender gap rimarrà sempre uno dei maggiori motivi della scarsa crescita del nostro Paese. Il futuro previdenziale anche in termini di sostenibilità si baserà sempre di più sulla partecipazione attiva delle donne al lavoro e di conseguenza alla previdenza, sia pubblica che privata.

È dunque auspicabile che nel nostro Paese cambi la visione per la quale il sistema di welfare è un costo anziché un’opportunità: solo con un’adeguata riforma si consentirebbe una maggiore partecipazione delle donne al lavoro, cosicché l’aumento della spesa sociale si trasformerebbe in un aumento della ricchezza prodotta dal lavoro femminile.

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