Perché l’ingaggio di CR7 non risanerà il nostro calcio

Il calcio italiano è caratterizzato storicamente da paradossi. Nella settimana che ha portato Cristiano Ronaldo (ex centravanti del Real Madrid) ad accettare l’ingaggio da 30 milioni di euro a stagione, da parte della Juventus, ben tre club di calcio (Cesena, Reggiana e Bari calcio) hanno alzato bandiera bianca, non riuscendo, il loro management/proprietà, ad assicurare la continuità aziendale per le stagioni a venire.

Sarà (forse) un caso, ma questa emorragia si ripresenta, con costanza ciclica, al termine di ogni stagione agonistica, quando anche presentare una fidejussione di un primario istituto bancario (spesso dai nomi di fantasia e con sede nei paradisi fiscali) diventa un’operazione di difficile esecuzione. In sintesi, anno dopo anno, il football professionistico tricolore sta scomparendo.

Ecco perché, pur essendo assolutamente felici per i vertici della Juventus, anche se 373 milioni di euro (tra clausola rescissoria, ingaggio, commissioni al procuratore del calciatore e tasse da pagare) non sono una cifra facilmente ammortizzabile, restano forti dubbi sulla stabilità del resto del sistema.

L’obiettivo della stragrande maggioranza dei club italiani è raggiungere la Serie A, perché entrare nel salotto buono del calcio, significa portare a casa, nella peggiore delle ipotesi, un “tesoretto” vicino ai 20-25 milioni di euro (è la quota minima da diritti tv per una neo promossa in prima divisione).

Ma tutto non può ridursi alla scalata sportiva per incassare questo cachet (seppur di livello) nell’anno della promozione.

Complessivamente, ancora oggi, le realtà della prima divisione sono troppo schiacciate sulle entrate da tv rights (rappresentano mediamente il 65% del giro d’affari).

I ricavi da sponsorizzazioni, accordi commerciali e da biglietteria non consentono di sopravvivere o di sviluppare progetti di crescita per il futuro.

Per dare un parametro internazionale, i campioni di Germania del Bayern Monaco sono il club europeo con la percentuale più alta da ricavi commerciali (58%), pari a 343 milioni di euro, mentre le entrate da diritti tv non pesano oltre il 25% (146,7 milioni).

Chiudono il cerchio gli introiti da ticketing pari al 17% della torta economica dei bavaresi (97,7 milioni di euro). In totale, i tedeschi, al sesto titolo nazionale consecutivo, sviluppano un giro d’affari di 582 milioni di euro e sono posizionati al 4° posto della ricerca Football Money League 2018 firmata da Deloitte.

Il tema della “sostenibilità economica” del football tricolore è assolutamente attuale, ma molto poco è stato fatto negli ultimi 25 anni, ovvero da quando professionalmente seguo l’impatto dell’economia nel mondo dello sport, e, nello specifico, del pianeta calcio.

Ancora oggi, in questo settore, non si arriva a rendere obbligatori alcuni percorsi formativi per l’ingresso nelle cosiddette “aziende calcio” (ormai tutte società di capitali). L’elemento di accesso standard è il networking o peggio ancora la “cooptazione”, dove è l’aspetto fiduciario della relazione interpersonale a dominare su qualsiasi scelta acritica. Per il presidente, per le proprietà delle società di calcio, è più importante che la risorsa aziendale sia di assoluta fiducia rispetto a una formazione manageriale che certifichi competenze e attitudini al singolo ruolo in seno all’impresa. 

Nella realtà, non c’è più spazio per gestioni di tipo “famigliare”, con parenti e amici nei ruoli apicali, perché spesso proprio questa filosofia ha portato molti club a scomparire. Personalmente auspico che la formazione manageriale sia sempre più l’X-factor per entrare nei club sportivi, che devono muoversi sul mercato nell’ottica del fair play finanziario, ovvero corretto e costante bilanciamento di costi e ricavi.

Troppe società, negli ultimi 20 anni, sono fallite in Europa, proprio per l’assenza di managerialità a tutti i livelli aziendali. È arrivato il momento di rendere questi percorsi “obbligatori” per tutti i ruoli presenti nelle società sportive.

Altrimenti continueremo a raccontare fallimenti, declini e chiusure, e l’arrivo di top player del calibro di CR7 rischierà di configurarsi come la classica “rondine” che non fa però primavera.

 * giornalista economico e direttore agenzia stampa Sporteconomy.it