Onlife, la realtà in cui viviamo

Il digitale oltre la crisi: bisogna cambiare per andare avanti, nel mondo del lavoro e nelle relazioni umane. Progetto Manager incontra il professor Luciano Floridi, tra i massimi esperti mondiali di artificial intelligence e filosofia dell’informazione

L’emergenza che ha colpito la nostra quotidianità, costringendo molti a una forzosa permanenza domestica, ha evidenziato il ruolo indispensabile delle tecnologie per relazionarsi a un universo lavorativo improvvisamente delocalizzato. È il digitale la via obbligata per proseguire percorsi professionali che guardano a un futuro incerto, ma ricco di possibilità. Per accendere una luce che ci aiuti a comprendere questa fase storica, incontriamo uno dei massimi esperti mondiali in materia di artificial intelligence (Ai) e filosofia dell’informazione, Luciano Floridi, ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital ethics lab dell’Oxford internet institute.

Luciano Floridi, ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, direttore del Digital ethics lab dell’Oxford internet institute

Professore, le tecnologie ci consentono di attutire l’impatto del coronavirus sulle attività lavorative. Che lezione ne traiamo?

Stiamo capendo una cosa: il digitale è essenziale per uscire dalla crisi ma, quando sarà passata, non dovremo commettere l’errore di riabbracciare i tradizionali schemi operativi proponendo così, mi passi la battuta, lo stesso piatto, ma in salsa digitale. Un meeting manageriale online, per temi e modalità di gestione, non dovrà essere più il classico incontro in ufficio che si tenta di riprodurre con l’ausilio della rete. L’analogico non si presta infatti a essere pedissequamente trasposto in digitale, anche perché in tal modo non si beneficia di tutte le potenzialità delle tecnologie a disposizione. Per esempio, non ci verrebbe mai in mente di partecipare a una riunione in ufficio con un registratore, perché gli interlocutori si sentirebbero condizionati. Partecipando online, invece, ci capita spesso di registrare i contenuti delle riunioni e dobbiamo inoltre rispettare codici di comportamento diversi affinché tutto funzioni al meglio. Ecco, è in questo spazio di incontro tra realtà fisica e opportunità della rete che ci muoviamo oggi, quali agenti che vivono in una dimensione “onlife”.

Ci muoviamo in uno spazio di incontro tra la realtà fisica e quella virtuale, quali agenti che vivono in una dimensione “onlife”

“Onlife”, una definizione a lei molto cara. Più volte ha paragonato l’uomo in equilibrio tra offline e online alle mangrovie che crescono dove l’acqua dolce incontra quella salata…

Sì, superata la fase emergenziale che stiamo sperimentando, dovremo essere ancor più consci della realtà “mista” in cui operiamo. Per tornare all’esempio precedente, continueremo a fare meeting sia di persona sia online, ma probabilmente con maggiore consapevolezza. Proprio come le mangrovie, sviluppiamo la nostra esistenza in un punto d’incontro costante. La differenza tra reale e virtuale diventa indistinguibile. In Italia, la condizione di operatività online dell’ultimo periodo è stata vissuta un po’ come uno strappo improvviso. Tuttavia, non dobbiamo pensare che, una volta passata la tempesta, opereremo esclusivamente online; torneremo a vivere anche i nostri spazi analogici, come l’ufficio e la piazza. Più consapevoli però delle opportunità offerte da modalità come lo smart working.

Una soluzione che potrebbe rivelarsi utile anche oltre questo periodo. Che ne pensa?

Adesso stiamo comprendendo i vantaggi di desincronizzare il lavoro, rivedendo la concezione tradizionale che tutti debbano essere sincronizzati con un orario di lavoro fisso e poco flessibile. La necessità di operare con il digitale potrebbe rafforzare notevolmente i modelli organizzativi di alcune aziende e, mi auguro, anche della Pa. Il lavoratore, anche solo mantenendo lo stesso livello di produttività, ha più tempo per la vita personale e percepisce un maggiore benessere complessivo. Sarà quindi meno propenso a lasciare l’organizzazione in cui opera per cercare soluzioni più flessibili. Uno dei maggiori problemi dei manager oggi è l’employee retention, vale a dire la capacità di trattenere le risorse migliori. Se non si trattengono i migliori, rimangono solo quelli meno bravi e l’organizzazione ne risente. È ciò che accade spesso anche nella pubblica amministrazione. Con lo smart working, anche nel caso di parità di costi e produttività, ottengo un risultato importante: la risorsa non va via. Attenzione, non deve però essere ridotto al semplice telelavoro, cioè lo stesso lavoro e le stesse modalità interattive, ma a distanza. Si deve ripensare anche a come si fanno le cose, non solo quando e dove. Sono elementi che una nuova visione manageriale non potrà non tenere in considerazione.

A proposito di visione, come immagina, per l’azienda e non solo, il progressivo percorso di adattamento tra intelligenza umana e Ai?

Possiamo pensare a tre scenari: uno apocalittico e distopico in cui siamo noi a subire le macchine, con un mondo creato intorno a loro; uno idealistico, utopico, in cui le macchine si adattano a noi al 100%; infine il futuro probabile, quello in cui ci adatteremo reciprocamente, l’uomo si relazionerà a modelli di Ai sempre più avanzati. Vi sarà una convergenza tra due forme di capacità di azione.

L’uomo si relazionerà a modelli di Ai sempre più avanzati. Ma ci adatteremo reciprocamente

Come potremo gestirla?

Pensi all’attuale utilizzo del navigatore per veicoli. Io spesso mi adatto al sistema perché mi guida verso la soluzione ottimale. Però, se per esperienza so che c’è una soluzione migliore rispetto a quella prospettata dal sistema, adeguo il navigatore alle mie esigenze. L’esempio serve a comprendere che, laddove abbiamo esperienza e conoscenza, saremo noi a controllare la tecnologia. Quando mancherà la conoscenza, sarà la tecnologia a condurci. Ecco perché la formazione accademica, professionale e culturale rimane un elemento cruciale, perché è necessaria a controllare tecnologie che, benché straordinarie, dovranno sempre seguire scelte e strategie lasciate nelle mani dell’uomo. Anche il manager d’azienda sarà fondamentalmente un decisore strategico che, più che pensare all’operatività dell’oggi (che resta importante, come anche la gestione dell’emergenza), dovrà trovare soluzioni sul “se e come” fare le cose domani. Serviranno manager sempre più preparati in grado di chiedersi: «Stiamo facendo la cosa giusta? E la stiamo facendo nel modo giusto? O forse dobbiamo procedere diversamente?». Altrimenti c’è il rischio di diventare semplici gestori e non manager nell’accezione più completa del termine.

Si discute molto di un approccio etico all’intelligenza artificiale e si susseguono, nel mondo, documenti di impegno sui principi che dovrebbero regolarne l’applicazione. Cosa ne pensa?

Faccio parte di diversi comitati e organismi internazionali che si occupano del tema, ma ritengo molto importante che non ci si fermi a enunciazioni di principio. Non fa di certo male partire da finalità condivise come trasparenza, sicurezza, imparzialità, ma se rimaniamo alle definizioni e ai principi, non servono a niente. Se un libro si interrompe all’introduzione, il lavoro è inutile. Questi principi rappresentano un solido punto di partenza per una valutazione interna ed esterna alle aziende. Ci sono grandissime imprese che oggi stanno lavorando all’elaborazione di protocolli che trasformino i principi in pratiche operazionali, consentendo sia una valutazione interna del proprio operato sia una sorta di “certificazione esterna”; protocolli che rendano noto quale sia l’impegno dell’azienda sui risvolti etici dell’applicazione dell’Ai e quali siano i risultati ottenuti e le aree migliorabili. L’auditing etico rappresenta, a mio modo di vedere, la nuova frontiera, paragonabile alla sostenibilità, e in un futuro a breve termine si assisterà a un rilascio di questi protocolli. Oltre a una valutazione interna, vi potrebbe essere quindi una certificazione esterna affidata a organismi terzi, che abbiano natura pubblica e privata. Si potrebbe pensare a un’Agenzia europea incaricata dell’auditing di aziende e software interessati dall’applicazione di Ai: un soggetto pubblico autorevole e aperto anche alle competenze private. Sarebbe una scelta adeguata al XXI secolo, in cui il digitale è la variabile più significativa.

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