L’incontenibile voglia di shopping francese

186 operazioni per un controvalore di 52,3 miliardi di euro. Sono i numeri relativi al decennio 2007-2016, secondo un’indagine di KPMG, che fotografano come la “campagna d’Italia” messa in atto dalla Francia abbia prodotto un gran numero di risultati positivi. Al computo delle transazioni manca l’acquisizione da parte di Amundi di Pioneer Investment, precedentemente di proprietà di Unicredit, che ha portato nelle casse del colosso del credito 3,5 miliardi di euro all’inizio di quest’anno.

E l’Italia? Nello stesso arco temporale il nostro paese ha portato a termine 97 operazioni (poco più della metà di quelle francesi) ma per un controvalore di 7,6 miliardi, sette volte in meno di quanto realizzato dai transalpini.

L’elenco delle acquisizioni da parte della Francia è lunghissimo, e si concentra in diversi settori, tra cui luxury e moda, banche, telecomunicazioni.

La “campagna acquisti” nel settore degli storici brand della moda inizia agli albori del nuovo millennio, quando la holding LVMH rileva per 225 milioni di dollari il brand Fendi, prima in tandem con Prada e poi acquisendone il controllo definitivo. Nello stesso anno Bernad Arnault acquista da Diego Della Valle, Luca di Montezemolo e Paolo Borgomanero il controllo di Acqua di Parma, storica azienda profumiera milanese.

Nel 2004 Kering (all’epoca si chiamava ancora PPR) completa l’acquisizione di Gucci Group – di cui deteneva il 42% già dal 1999 e che nel 2001, per 156 milioni di dollari, aveva a sua volta rilevato Bottega Veneta – tramite un’opa da 7 miliardi di euro. Passa qualche anno e i due colossi del lusso, LVMH e Kering, riprendono lo shopping in Italia. Il gruppo guidato da Arnault conquista Bulgari nel 2011 e Loro Piana, nel 2013, per una cifra superiore ai 2 miliardi di dollari. François Pinault risponde comprando Brioni nel 2012 per 300 milioni di euro e Pomellato, nell’aprile del 2013, per 380 milioni di dollari.

Se si sposta l’attenzione al settore banche, è di oltre 10 anni fa l’acquisizione da parte di BNP Paribas di BNL dopo la scalata (fallita) di Unipol ai vertici dell’istituto di credito romano. Il 4 febbraio 2006, la banca francese annuncia di aver ricevuto il via libera all’acquisizione di 1,47 milioni di azioni (il 48% del capitale di BNL) a 2,92 euro per titolo, ovvero 4,29 miliardi di euro. In base alle leggi sull’opa, l’istituto di credito francese lancia l’acquisto del restante 52% divenendo unico azionista della banca (ex) italiana.

Ma l’archetipo, e per certi versi l’iniziatore, del forte interesse francese nei confronti del nostro paese ha un nome e un cognome: Vincent Bollorè. Il finanziere bretone ha già da molti anni avviato affari e partecipazioni strategiche nel capitale di alcune società italiane. Prima di tutto, scendendo a Milano e conquistando quello che, all’epoca, era ancora il salotto buono della finanza, ovvero Mediobanca.

Ma è nelle telecomunicazioni che, nell’ultimo periodo, il numero uno di Vivendi ha cercato maggiormente di farsi largo. Prima, acquisendo il 23,94% di Telecom Italia – per un controvalore di circa 4,2 miliardi di euro – poi portando a casa il 29,9% (appena sotto la soglia dell’opa) di Mediaset per circa 1,25 miliardi. In entrambi i casi, investimenti che, al momento, si stanno traducendo in “bagni di sangue” – per ora solo virtuali – di circa 1,5 miliardi.

La vicenda Telecom merita un approfondimento perché è uno dei rari casi in cui l’Italia ha provato ad arginare lo strapotere francese: prima, quando al timone era ancora Matteo Renzi, promettendo di porre dei tetti all’ingresso francese; poi dichiarando strategica la rete fissa; quindi invocando la possibilità di ricorrere alla golden power (la norma europea che consente al governo di blindare una società qualora sia in pericolo l’interesse nazionale).

A evocare il provvedimento, il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda il 31 luglio scorso. Una mossa a sorpresa che però può essere letta come un’autentica “ripicca” nei confronti dei francesi, rei di aver ostacolato l’acquisizione dei giganteschi cantieri di Saint Lazare dalla coreana (ma un tempo francese) STX, di cui la Francia possedeva ancora il 33%.

Il presidente francese Macron, infatti, aveva annunciato già in campagna elettorale che avrebbe arginato in qualunque modo l’acquisizione da parte di Fincantieri di un colosso così strategico per l’economia nazionale. L’accordo raggiunto alla fine di settembre, che vede l’ex società del gruppo Leonardo titolare del 50% +1 dei cantieri è parecchio annacquato rispetto a quanto ottenuto tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, ma è anche la dimostrazione che la Francia non è disponibile a ingressi massicci di capitali stranieri (e italiani in particolare) nei gioielli di famiglia.

Peccato che lo stesso non si possa dire dell’Italia che, al di là di Telecom, ha sempre tollerato con malcelata rassegnazione la calata dei transalpini che hanno condotto operazioni estremamente interessanti.

Una su tutte è l’acquisizione del colosso decaduto Parmalat, rimesso in sesto dal commissario Bondi dopo anni drammatici e poi ceduto ai francesi di Lactalis con la sua cassa da 1,5 miliardi.

Un’ultima modalità nel rapporto tra i due paesi è quello della cooperazione e della convergenza. Un esempio su tutti è quello della costituzione di un colosso dell’occhialeria, valutato circa 50 miliardi di euro, che dovrebbe nascere tra Luxottica ed Essilor.

Un’operazione complicata che dovrebbe conferire al patron dell’azienda veneta, Leonardo Del Vecchio, il 31% dei diritti di voto in una realtà in cui nessun altro potrebbe ambire ad avere più del 30% del capitale azionario. Un modello di business inteso come public company (società scalabile da altri soggetti, non istituzione pubblica) che darebbe a Luxottica ed Essilor insieme il 49% del capitale azionario.

Chiunque voglia “governare” questo gigante dovrebbe lanciare un’opa ostile difficilmente realizzabile se si considera il valore attuale delle due società. Il matrimonio tra Luxottica ed Essilor poggia su un modello di business che è già stato realizzato, seppur in un contesto completamente diverso e con modalità difficilmente confrontabili, anche nella Tav Torino-Lione, un progetto che, è stato confermato da Macron e Gentiloni, prosegue nonostante le difficoltà emerse, tra espropri e opposizioni varie.

Il piano, ribadito in più accordi, prevede un impegno di 9,8 miliardi da parte della Francia, di 1,7 miliardi da parte dell’Italia e di 10,8 miliardi equamente ripartiti tra le due nazioni, ma finanziati al 40% dall’Ue.

Una relazione forte, fortissima quella tra Italia e Francia che sta probabilmente vivendo una nuova stagione, quella in cui i governi, ritornati al centro della vita economica dei Paesi dopo qualche anno di appannamento complice la crisi, hanno preferito la strada di un pizzico di protezionismo a quella, più facile ma anche meno sicura, di un liberismo a tutti costi.

*   giornalista