Lavoro è partecipazione

Un nuovo patto tra sindacato e impresa che metta al centro il lavoro. Marco Bentivogli, segretario generale Fim-Cisl, individua il modello condiviso e sostenibile per ripartire in discontinuità con il passato

«L’emergenza sanitaria sta spingendo molte delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Servono persone dotate di competenze e visione che accompagnino questa transizione. Serve una nuova cultura del lavoro e su questa formare i nuovi manager». Marco Bentivogli è segretario generale Fim-Cisl e assieme al sindacato in questi mesi ha forzatamente dovuto affrontare l’emergenza lavorativa coniugandola al futuro. Una crisi senza precedenti che va combattuta con strategie nuove e armi tutte da inventare.

Marco Bentivogli, segretario generale Fim-Cisl

Segretario, le ricadute della pandemia sull’economia italiana rischiano di essere pesantissime. Come pensa si potranno mitigare gli effetti della crisi sui lavoratori e sulle aziende?

Questa pandemia ha causato migliaia di morti, un costo spaventoso in termini di vite umane che dobbiamo ricordare per non abituarci al freddo bollettino. Dietro a quei numeri terribili ci sono persone, vite e famiglie, storie segnate drammaticamente per sempre. Contemporaneamente il virus ci ha colpito e ci sta colpendo in maniera pesante sul lato economico e lavorativo, in una fase storica in cui ci troviamo di fronte a tre trasformazioni epocali: quella tecnologica, quella ambientale e infine quella demografica. Le proiezioni sul nostro Pil, fatte da vari istituti e agenzie di rating, si aggirano in un range di contrazione tra -9% e -11,5%. Stiamo parlando di numeri da guerra, mitigarne gli effetti non sarà facile soprattutto perché l’emergenza è caduta su un sistema produttivo già debole e con livelli di produttività tra i più bassi d’Europa. Ora la cosa fondamentale è ripartire bene e in sicurezza. Di fronte a questo tsunami sarà fondamentale non lasciare indietro nessuno e per questo servirà un contributo forte dell’Europa rivolto alle famiglie e alle imprese. Da parte nostra, comunque, possiamo fare molto. Dobbiamo convertire l’emergenza in forza di coesione, pensare a un nuovo rapporto tra pubblico e privato mettendo al centro la partecipazione. È necessario snellire il nostro apparato burocratico, improntato su un modello novecentesco e fordista non più compatibile, per farraginosità e lentezza, con i tempi imposti dall’emergenza e dalle tecnologie digitali. Il Paese ne uscirà se saprà cambiare profondamente, con riforme strutturali che modernizzino lo stato e prosciughino le paludi burocratiche, e poi affrontando con determinazione i deficit strutturali dell’Italia: dalle infrastrutture alla banda ultralarga e il 5G, dalla scarsa innovazione all’accesso al credito. E poi formazione, certezza del diritto e non del contenzioso.

Da parte nostra possiamo fare molto, dobbiamo convertire l’emergenza in forza di coesione

Come valuta le misure prese sino ad oggi dal Governo?

Questa emergenza sanitaria ci ha trovati tutti impreparati. C’è stata una sottovalutazione generale nella fase iniziale che, in maniera differente, ha interessato non solo il nostro Paese ma anche il resto d’Europa e gli Stati Uniti. Se nella prima parte di questa emergenza gli interventi messi in campo dal Governo sono stati importanti per frenare il contagio, successivamente la macchinosità della burocrazia ha dato il peggio di sé. Il cortocircuito di poteri concorrenti fra Regioni e Stato, dovuto alla mancata riforma del titolo V, sta alimentando confusione tra le competenze con il risultato che nessuno decide. Il decreto “Cura Italia” ha mostrato troppa lentezza e confusione causando rallentamenti nel sostegno economico a imprese e attività commerciali e l’accesso ai finanziamenti con garanzia statale fino alla soglia dei 25 mila euro, che avrebbe dovuto essere pressoché automatico, è tutt’altro che semplice da ottenere. Bisogna fare presto e semplificare altrimenti i danni saranno irreparabili. Dopo le riaperture servirà un check-up della salute produttiva e di mercato delle aziende italiane.

In molte fabbriche le riaperture sono seguite ad accordi fra azienda e sindacati sui protocolli di sicurezza. Ritiene che sia il momento di un nuovo “patto per il lavoro” fra associazioni datoriali e sindacati?

Serve un patto che metta al centro lavoro, partecipazione e sostenibilità. I protocolli sulla sicurezza sottoscritti in molte aziende metalmeccaniche sono il frutto di un lavoro condiviso tra sindacato, imprese ed esperti. Oggi più che mai questa collaborazione è fondamentale per ripartire bene, in sicurezza e con un salto di qualità in discontinuità con il passato. Bisogna ripensare le modalità, gli spazi e l’idea stessa di lavoro. Occorrerà puntare alla sostenibilità sociale e ambientale e alla partecipazione. Altrimenti difficilmente riusciremo a gestire questa fase emergenziale e le sfide che i cambiamenti tecnologici e ambientali ci pongono. Le imprese attente alle persone e all’ambiente sono quelle che hanno una migliore produttività, è una sfida che consente a tutti di vincere insieme.

Con Industria 4.0 l’Italia aveva avviato un grande programma d’innovazione tecnologica. Pensa che la crisi possa impattare su quella trasformazione industriale o, al contrario, ritiene che l’automazione in questa situazione di distanziamento sociale ed esigenze di tutela della salute metta ancora più a rischio i posti di lavoro?

Il piano Industria 4.0 messo in pista dall’allora ministro Carlo Calenda, insieme ai provvedimenti sull’alternanza scuola lavoro, ha permesso di fare un salto importante sul piano dell’innovazione dando una spinta forte alla crescita dell’intero Paese. Il rischio è che oggi, davanti alla crisi sanitaria che stiamo vivendo, molte aziende, specie tra le più grandi, puntino sull’automazione spinta a scapito dell’occupazione. Per questo dobbiamo lavorare insieme a una crescita armonica: le tecnologie sono fondamentali, ma devono mettere al centro del processo di trasformazione l’uomo, la sua intelligenza, la sua fantasia, le sue capacità. Se sapremo lavorare in questa direzione, investendo in un poderoso piano formativo e scolastico, il futuro ci riserverà più lavoro, lavoro di qualità in cui le persone potranno realizzarsi e, come dice Papa Francesco, rifiorire nel lavoro. Le aziende si sono trovate vulnerabili e punteranno a processi di automazione che vanno accompagnati da giganteschi piani di reskilling, mettendo in gioco una formazione nuova, più adattiva alle persone. Non solo: bisognerà pensare al territorio rigenerandolo in ecosistemi intelligenti per interrompere la grande fuga dal Paese.

Le aziende punteranno a processi di automazione che vanno accompagnati da giganteschi piani di reskilling, per una formazione più adattiva alle persone

Davanti alla paura del virus, il mondo globalizzato ha riscoperto le frontiere. Ritiene che questa crisi rappresenterà un freno all’internazionalizzazione dei mercati e alle delocalizzazioni produttive?

Ci sarà sicuramente un rallentamento sui processi di internazionalizzazione dei mercati, ma nella storia dell’umanità l’uomo ha sempre viaggiato alla scoperta di nuove terre e merci. Nelle primissime settimane di crisi sanitaria in Cina si sono registrate, subito, interruzioni delle sub-forniture e molti si sono resi conto di non conoscere fino in fondo le proprie filiere. Come ho scritto insieme a Massimo Chiriatti due anni fa nel manifesto “Blockchain Italia”, se usata come un bene pubblico digitale questa infrastruttura sarà utile per tracciare la sostenibilità delle filiere. Credo che dovremmo strategicamente, come Paese e come Ue, ripensare e accorciare alcune delle nostre filiere produttive strategiche, come la produzione dell’acciaio fondamentale per la nostra industria, ma anche ragionare su piattaforme di commercio digitali di cui sia l’Italia che l’Europa sono sprovviste.

Quale impatto ritiene potrà avere la difficile situazione economica sul mondo del lavoro? Ritiene plausibile un’ulteriore spinta verso la precarizzazione?

Dipenderà tutto da noi. Se sapremo sfruttare questa situazione declinandola al positivo, innovando e facendo le cose che fino ad oggi il nostro Paese ha sempre rifiutato di fare, potremo fare un salto di qualità. In caso contrario il rischio che si allarghi la forchetta della diseguaglianza e della precarizzazione c’è. La contrattualistica del ‘900 è sempre meno efficace, evitiamo che la precarietà oltre che da logiche di riduzione dei costi, scaturisca dall’incapacità di pensare a nuove regole.

Questo cosa potrebbe comportare per le professioni manageriali?

L’emergenza sanitaria sta spingendo molte delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Servono persone dotate di competenze e visioni che accompagnino questa transizione. L’ordine fordista di gestione dell’organizzazione del lavoro dall’alto in basso, secondo la catena padrone-manager-operaio, non ha più senso. Serve ragionare su modelli orizzontali di gestione del lavoro, lavorare a una riorganizzazione fisica e virtuale degli spazi di lavoro. Le palazzine direzionali in stile Fantozzi sono utili solo al megadirettore generale. Il lavoro assomiglierà sempre più a un progetto, fondato su libertà, autonomia, fiducia e responsabilità, che saranno le nuove parole chiave: se si riusciranno a tenere insieme si avranno risultati straordinari. Se si pensa che la responsabilizzazione non funzioni, vuol dire che il capo del personale ha meno fiducia dei propri dipendenti di quanta ne ha un pastore del suo gregge.

L’ordine fordista non ha più senso. Libertà, autonomia, fiducia e responsabilità dovranno diventare le parole chiave

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