L’arte di trattare

Per secoli, gli affari diplomatici sono rimasti esclusiva degli uomini. Oggi, nel mondo, le Ambasciatrici sono appena il 15%. Un cammino in salita che, però, vale la pena percorrere. L’opinione della Cons. Amb. Serena Lippi.

Serena Lippi, Consigliera diplomatica del Ministro dell’Istruzione e del Merito e Presidente dell’Associazione Did

 

Uno dei pregiudizi che colpisce da sempre le donne riguarda l’impossibilità di fare carriera perché quel lavoro o quel settore di attività “è roba da uomini”. Troppo rischioso, troppo maschile, troppo faticoso, o persino troppo lontano da casa. Così avviene, ad esempio, nella carriera diplomatica. Per questo incontriamo Serena Lippi, da 24 anni nel campo, oggi Consigliera diplomatica del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, con due mandati alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea, dal 2006 al 2010 all’Ambasciata di Tripoli in Libia, già Console a Nizza negli anni dell’attentato terroristico sulla Promenade des Anglais, e numerosi altri incarichi di prestigio.

Consigliera Lippi, la prima Ambasciatrice d’Italia è stata nominata nel 1985. Considerando che “l’arte di trattare” risale alla notte dei tempi, come mai così tardi?

In Italia ci sono voluti molti anni e una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 per consentire l’ingresso alle prime donne in diplomazia nel 1967. Donne queste che venivano considerate peculiari, votate solo al lavoro, alcune senza figli e senza poter aspirare a costruire una propria famiglia. Dobbiamo aspettare il 1980 per avere la prima donna chiamata a guidare un’Ambasciata all’estero come Incaricato d’Affari e il 1985 per la prima Ambasciatrice d’Italia.

Quanto è difficile per una donna salire ai vertici della diplomazia?

Va detto che ancora oggi non è mai stato attribuito a una donna l’incarico più importante, quello di Direttore generale per gli Affari politici della Farnesina. Nel 2003 si è avuta per la prima volta una donna Direttore generale per gli Affari culturali. Finora abbiamo avuto una sola donna Segretario Generale, l’Ambasciatrice Elisabetta Belloni, e una sola donna Ambasciatrice a Washington, Mariangela Zappia.

In Italia ci sono voluti molti anni e una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 per consentire l’ingresso alle prime donne in diplomazia nel 1967

L’Associazione Donne italiane diplomatiche e dirigenti (Did), da lei presieduta, è nata proprio in ragione della scarsa presenza femminile nella carriera diplomatica. Quali passi in avanti sono stati compiuti finora?

La Did è nata il 16 ottobre 2001 e l’idea di crearla venne a un gruppo di colleghe, di cui facevo parte, proprio in considerazione dell’esigua presenza femminile in carriera e per replicare un’iniziativa simile a quella già esistente in Magistratura. L’impulso iniziale era quello di riunirci per conoscerci meglio, confrontarci sui percorsi professionali e scambiare informazioni sulle esperienze di vita all’estero. Poi abbiamo iniziato anche a capire l’esigenza, in un ambiente di lavoro quasi completamente maschile, di sostenerci reciprocamente per favorire la parità di genere e le pari opportunità, la conciliazione tra vita lavorativa e vita personale familiare, e una maggiore inclusività in ogni ambito, contribuendo a migliorare la cultura organizzativa della nostra Amministrazione. La Did è tra le prime Associazioni di diplomatiche a essere stata fondata in Europa e di recente, sul nostro modello, è stata fondata un’Associazione anche in Brasile.

Si può dire che il gender gap sia una realtà in molti Paesi e che l’Italia non faccia eccezione? 

In diplomazia nessun Paese ha raggiunto la piena parità di genere. A livello mondiale solo il 15% di Ambasciatori è donna. In Europa, la più alta percentuale di donne Ambasciatrici si trova in Finlandia e Svezia (oltre il 40%) e Norvegia (oltre il 30%). Sul piano internazionale, uno dei risultati migliori è quello degli Usa, dove le donne sono entrate in carriera nel 1920 (peraltro con il divieto di sposarsi fino al 1971) e oggi rappresentano il 30-40% dei Capi missione. Presso le Nazioni Unite, il più elevato numero di Rappresentanti permanenti donne è stato raggiunto nel 2019, con 50 Ambasciatrici (su 193 Stati membri dell’Assemblea generale).

Nelle istituzioni europee com’è la situazione?

Ho lavorato per quasi 10 anni a Bruxelles e posso confermare che in Europa si sono fatti notevoli passi in avanti, tanto che l’Ue incorpora il raggiungimento delle pari opportunità in tutte le politiche (mainstreaming di genere) e le percentuali di Ambasciatrici femminili sono cresciute dall’istituzione del Seae (Servizio europeo per l’azione esterna).

In base alla sua esperienza e al confronto con tante colleghe, quali sono le ragioni dello squilibrio di genere?

Stiamo cercando di comprenderne meglio le radici perché il fenomeno emerge fin dall’ingresso in carriera. Le donne in Italia rappresentano oggi circa il 24% del corpo diplomatico e, ad ogni concorso, quelle che superano le prove rappresentano sempre una netta minoranza, nonostante le candidature femminili siano generalmente superiori a quelle maschili. All’ultimo concorso sono entrate soltanto 12 donne su un totale di 48 posti. Poi la percentuale si assottiglia sempre di più man mano che si avanza nella carriera e si sale verso i livelli apicali. Con la Dgri (Direzione generale per le risorse e innovazione) della Farnesina stiamo lavorando per cercare di capire le motivazioni di questo gap e individuare soluzioni per colmarlo. Nel Nord Europa il divario è minore, in alcuni Paesi del mondo sono state introdotte delle quote, in altri dei target (Australia, Nuova Zelanda…) per incentivare la presenza femminile. Secondo la Did sarebbe necessaria l’adozione di misure concrete e rapide per un riequilibrio della presenza di genere al Maeci, in linea con la legislazione italiana ed europea in materia.

Come Consigliera diplomatico del Ministro Valditara, grande attenzione è naturalmente rivolta al tema del merito. Come va interpretato?

Il tema del merito è fondamentale e andrebbe valorizzato sempre, non soltanto nella scuola e nell’Università, ma soprattutto nel mondo del lavoro, dove di fatto se ne tiene meno conto. Sicuramente si tratta di un concetto discrezionale, perché riconoscere il merito significa essere in grado di valutare in maniera equa il possesso di conoscenze, abilità, competenze, oltre che il raggiungimento di risultati sulla base di obiettivi. Proprio perché credo fermamente nella meritocrazia, sono sempre stata contraria all’introduzione delle “quote rosa”, che finiscono per sminuire la qualità del lavoro svolto dalle donne. Ritengo tuttavia che le valutazioni e le promozioni nella nostra carriera necessitino di una maggiore attenzione alle reali capacità professionali delle colleghe.

Cosa direbbe oggi a una giovane che voglia affacciarsi alla carriera diplomatica?

Consiglierei, prima di tutto, di riflettere bene su quali siano le aspirazioni e ambizioni professionali. Parliamo di una professione estremamente stimolante e molto più adatta alle donne di quanto non si pensi: sono richieste abilità negoziali e di mediazione, capacità di comprensione e ascolto dell’interlocutore, doti comunicative, capacità relazionali. Bisogna affrontare questo lavoro con una grande determinazione e lo spirito giusto, essere persone curiose, versatili e flessibili, con una mentalità aperta, che amano viaggiare e conoscere culture diverse, interessate a favorire il dialogo con altri popoli e Paesi. A volte si devono affrontare sacrifici in termini di lontananza dall’Italia e si lavora molto, spesso senza orari, ma gli stimoli intellettuali e le soddisfazioni sono veramente tanti.

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