Il ritornello è che siamo in presenza del declino del lavoro, che sarà sempre più scarso, e che, forse, si avvererà la profezia della “fine del lavoro”. Un mantra che si collega ad altri stereotipi, come l’ultimo in circolazione: i robot ci rubano il lavoro.
Tra le teorie, si fa per dire, che alimentano le paure quella delle tecnologie che uccidono il lavoro ha sostituito quella che circolava qualche tempo fa, e cioè che troppi stranieri ci avrebbero rubato il lavoro. L’opinione pubblica è bombardata da fattoidi che aumentano l’incertezza e fanno calare la fiducia nel futuro.
Il primo fatto è che il lavoro nel mondo sta crescendo, e parliamo di lavoro regolare: almeno 30 ore la settimana, con le trattenute fiscali e contributive. Molti paesi emergenti ed emersi stanno portando alla luce una classe lavoratrice che ripercorrerà il cammino che l’Europa ha compiuto dopo la seconda guerra mondiale, alla ricerca di nuove classi medie.
La globalizzazione riserverà molte sorprese, ma è un fatto che Cina e India, tra le altre, vedranno crescere nuove classi, che chiedono aumenti salariali e il diritto alle relazioni sindacali, stimolando lo sviluppo.
Acquista seguito così la consapevolezza che il lavoro non è un’entità rigida e fissa, ma una risorsa in grado di crescere. Il malthusianesimo afferma l’avvento della povertà e la scarsità crescente del lavoro, ma non sa che il lavoro può crescere ed essere creato, certamente, ma non solo, grazie a nuove politiche di tipo keynesiano.
Non si tratta di occupazione assistita dallo Stato, ma di politiche economiche e industriali che scegliendo i settori su cui puntare offrano la direzione di marcia di nuova crescita e sviluppo.
Saranno necessarie sia politiche industriali nazionali ed europee sia politiche territoriali, che vadano alla scoperta di nuovi giacimenti occupazionali nei singoli territori. Il nostro paese in particolare ha sempre dimostrato una forte sensibilità alla nascita dei distretti, che oggi e domani potrà trovare nuova linfa, scommettendo sui bisogni del territorio da cui possa scaturire una nuova domanda.
Le riforme del lavoro negli ultimi vent’anni si sono soprattutto rivolte alla creazione di occupazione al margine; hanno setacciato le sacche di lavoro nero da far emergere in parte, hanno liberalizzato alcuni lacci e lacciuoli (articolo 18), ma non hanno ancora impostato una dinamica strutturale della domanda, capace di creare occupazione non solo e non tanto attraverso incentivi più o meno generosi, ma attraverso la riduzione strutturale dei principali ostacoli al fare impresa. Ora bisogna passare a sostenere la domanda, perché solo con le norme sul mercato del lavoro non si crea occupazione stabile.
La novità delle riforme del lavoro si chiama nuove politiche attive: per la prima volta siamo entrati decisamente in questa sfida e non possiamo tornare indietro.
Il diritto del lavoro viene quindi integrato con altri sistemi, primo tra tutti quello della rete dei servizi all’impiego, cosicché il diritto al lavoro oggi è sempre di più diritto ai servizi per il lavoro: servizi efficaci che superino le vecchie pratiche del familismo e del passaparola, per entrare nel sistema dei servizi al lavoro e nelle tutele non tanto del singolo posto ma nel mercato del lavoro e nella occupabilità, ciò che chiama in causa gli stessi sistemi formativi.
Oltre alla sfida delle politiche attive e dei servizi al lavoro va affrontata quella che ormai molti chiamano la bomba previdenziale. Il timer è acceso da quando i sistemi previdenziali sono stati orientati ai modelli contributivi in sostituzione di quelli retributivi.
All’obiettivo di avere pensioni dignitose concorrono diversi fattori: la vita previdenziale individuale, la carriera contributiva personale, la continuità lavorativa, la crescita delle retribuzioni, il peso del cuneo fiscale e della tassazione sul lavoro.
Il circolo vizioso diventa a questo punto evidente: a salari e stipendi bassi, come sono quelli italiani sia per operai e impiegati che per quadri e dirigenti, corrisponderanno pensioni altrettanto basse. Si alzeranno (ma fino a che punto?) i valori per la speranza di vita sia delle pensioni di vecchiaia che di quelle anticipate o di anzianità.
Che fare? Da qui dovrebbe iniziare un dibattito sulle mosse da compiere.
Senza avere la pretesa di esaurire la discussione, se ne possono citare solo alcune: la riforma del cuneo fiscale, che alleggerisca i lacci e lacciuoli sulle imprese, liberando risorse e nello stesso tempo dando un po’ di ossigeno alle buste paga; la riapertura di un vero cantiere pensioni, che faccia giustizia della tenaglia tra età di vecchiaia ed anzianità contributiva, bloccando almeno uno dei due indicatori; lo sviluppo delle previdenza integrativa, soprattutto collettiva e categoriale; la ricerca di una sostenibilità che non sia intesa solo come sostenibilità contabile delle casse ma come sostenibilità delle persone, grazie a un nuovo welfare di accompagnamento che andrà nel tempo costruito.
Altrimenti rassegniamoci a immaginare un futuro che avrà come tratto distintivo quello della povertà, sia delle classi più deboli sia del ceto medio, già ampiamente tartassato, disprezzato e umiliato da mediocri quanto inique politiche governative.
*giornalista, è uno degli esperti consultati per la ricerca
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