Il lato umano dell’innovazione

La digitalizzazione implica un impegno economico e culturale. Mario Fiorentino, direttore generale per la politica industriale, l’innovazione e le Pmi del Mise, analizza il processo che sta portando milioni di persone a lavorare in modo nuovo

Il lavoro cambia. Lo vediamo nelle nostre vite e nelle nuove forme di organizzazione di aziende, uffici pubblici e realtà professionali. Ma verso quali orizzonti ci proiettiamo? E in quali scenari dovranno operare manager e imprese? Per comprendere l’evoluzione in atto, Progetto Manager incontra Mario Fiorentino, direttore generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole e medie imprese presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise).

Mario Fiorentino, Direttore generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole medie imprese presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise)

La pandemia ha imposto una nuova visione del lavoro, ancor prima che un ripensamento di modelli e processi organizzativi. Qual è stato l’impatto avvertito dalle aziende italiane?

Nonostante alcune aziende virtuose in passato avessero sperimentato il lavoro agile, ed esattamente 570 mila, con il primo lockdown siamo stati messi di fronte, e direi brutalmente, ad una realtà inaspettata per molte altre, ovvero che il lavoro così come lo conoscevamo è mutato, evolvendosi. Dati alla mano, su 23 milioni di lavoratori (dipendenti e autonomi), 10 milioni necessitano di lavorare con la modalità smart working, al contrario, a oggi, sono solo 6 i milioni di lavoratori che effettivamente lo fanno, contro i poco più di 500 mila che già lo facevano in fase pre-Covid-19. Pertanto, benché il fenomeno dello smart working non fosse totalmente sconosciuto, la maggior parte delle aziende italiane non ha avuto il tempo di maturare questo cambiamento e si è trovata, con le difficoltà che conosciamo, ad affrontare un percorso fortemente gravoso, non solo dal punto di vista economico, attraverso il cambiamento dei processi produttivi e di adeguamento alle norme di sicurezza, ma anche “banalmente” umano.

Oggi si parla molto di “dematerializzare” il lavoro e di realizzare una digital transformation delle aziende per competere. A che punto siamo?

Sicuramente uno degli effetti più rilevanti della pandemia è stata la dematerializzazione del lavoro. Tuttavia, non tutte le realtà hanno seguito lo stesso percorso, basti pensare alla differenza sostanziale che esiste tra le grandi aziende e le piccole e medie imprese: le prime hanno un core business molto più dinamico, volto a decentrare i propri orizzonti a livello globale.

Servono evidentemente manager in grado di guidare il cambiamento. Qual è la posizione del Mise sul punto?

Da anni puntiamo a favorire il processo di digitalizzazione delle piccole e medie imprese, mettendo a disposizione numerosi strumenti, come voucher e incentivi. Tra i tanti, un esempio recentissimo è il Piano transizione 4.0, diretto a sostenere gli investimenti in nuove tecnologie attraverso un credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali materiali e immateriali tecnologicamente avanzati; o anche il cosiddetto voucher per temporary manager dell’innovazione, una misura molto fortunata che è nata proprio dalla collaborazione tra Mise e Federmanager, con l’obiettivo di sostenere i processi di trasformazione tecnologica e digitale delle Pmi favorendo la crescita delle competenze manageriali. Insomma, la posizione del Mise è chiara: investire nelle Pmi dando loro quello slancio di cui hanno bisogno; si pensi all’attuale contributo di questo ministero nelle proposte, in sede parlamentare, rivolte a rafforzare ulteriormente il supporto tramite investimenti.

Il Mise sostiene strumenti, voucher e incentivi mirati per le Pmi, per dare loro quello slancio di cui hanno bisogno

Parlando ancora di Pmi, si fatica a passare dal semplice lavoro da remoto a modelli di vero smart working. Con quali rischi?

L’adozione del modello organizzativo basato sullo smart working è già realtà. È evidente che le grandi aziende organizzate con i loro business plan sono al passo con i tempi: investono nella digitalizzazione e hanno a disposizione maggiori risorse che consentono di mantenere uno standard sempre molto elevato e competitivo. Al contrario, le Pmi, come anche le pubbliche amministrazioni, faticano ad aggiornarsi nella gestione dei processi produttivi e restano irreparabilmente indietro, così come si è verificato in questo periodo con la gestione del lavoro esclusivamente in emergenza. Il fenomeno dello smart working è strettamente connesso con la digitalizzazione e l’automazione dei processi aziendali e difficilmente si potrà tornare ai modelli organizzativi pre-pandemia. Occorre mettere in conto che la digital transformation ha bisogno di trovare una sinergia nella mentalità dei lavoratori e dei manager, altrimenti si rischia di fallire nella gestione aziendale futura.

Il Consiglio dei ministri ha approvato la proposta di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dedica grande attenzione a digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo. Che opportunità si aprono per manager e imprese?

Come dicevamo, nei confronti delle aziende sono stati messi a disposizione strumenti che consentono di investire sul proprio sistema produttivo aziendale. In tutto questo i manager hanno un ruolo fondamentale; sono chiamati a interpretare e declinare il cambiamento necessario, aiutando l’azienda a capire quali nuovi comportamenti debbano diventare il bagaglio quotidiano di tutti i dipendenti. Si tratta in pratica di un’evoluzione culturale. Riuscire a governare l’effetto combinato del 4.0 e delle nuove forme di lavoro diventa indispensabile per assicurare competitività al sistema imprenditoriale italiano. Il lockdown ha accelerato notevolmente la strada dell’alfabetizzazione tecnologica, occorre adesso uscire dalla logica emergenziale e programmare i processi aziendali in un’ottica di medio-lungo periodo. Adeguarsi ai processi di digitalizzazione e automazione consente di ottenere dei vantaggi immediati, che vanno dalla riduzione notevole dei costi di gestione all’ottimizzazione dei processi aziendali, snellendo e velocizzando tutte le attività manuali di inserimento dati tramite l’utilizzo di workflow. Si determina poi un miglioramento della collaborazione e dell’efficienza dei dipendenti e c’è da considerare anche l’impatto della digitalizzazione dei documenti, che consente di limitare i costi di archiviazione e di velocizzare l’accesso e il reperimento di informazioni.

Governare l’effetto combinato del 4.0 e delle nuove forme di lavoro è ormai indispensabile per assicurarci competitività

Quali sono quindi i nuovi orizzonti del lavoro in azienda, a suo giudizio? Bisognerà rivedere anche le tradizionali impostazioni del welfare?

Lo smart working e la digital transformation rappresentano i nuovi orizzonti del lavoro in azienda. Oggi più che mai è fondamentale abbracciare le nuove tecnologie, in un processo virtuoso che il Mise sta accompagnando in modo decisivo da quasi un quinquennio. La fase di emergenza a seguito della pandemia ha generato un processo che, se governato, potrebbe migliorare l’organizzazione del lavoro. La forzata clausura di migliaia di lavoratori e professionisti deve portare a riflettere su un welfare differente, ridisegnato in funzione di pratiche lavorative che siano davvero smart. D’altra parte, è vero che finora le aziende hanno agito soprattutto in emergenza, chiamate a rispondere in tempi rapidi e imprevedibili alla crisi. Purtroppo, i modelli adottati nella maggior parte dei casi si sono limitati a forme di lavoro da remoto e non di smart working nell’accezione più ampia. Pertanto, introdurre il lavoro agile può costituire un’opportunità di crescita, anche umana per le persone coinvolte, oltre che una tappa importante nel percorso di innovazione di ogni organizzazione.

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