Elezioni USA. Flash sulla regia democratica

Il più grande spettacolo politico del mondo. La campagna presidenziale USA resta uno degli appuntamenti più affascinanti per l’opinione pubblica internazionale: è la ragione per cui chi si occupa di consenso come me, sta per salire su un aereo per gli States, ma – cosa più rilevante – è il motivo per cui non si smette di parlarne, dai media alle istituzioni nazionali. E il mondo manageriale, giustamente, non fa eccezione.

Con la maggior parte di noi lì incollata a seguire la narrazione, per chi si occupa quotidianamente di gestire e dirigere, diventa molto interessante capire cosa accade dietro la macchina da presa. Anche per evitare qualche pericoloso errore di valutazione.

FLASH 1: le star non servono a vincere, sono indispensabili i manager preparati

Non c’è politico italiano di spicco che non abbia tentato la carta del guru americano per vincere un’elezione. Quasi mai con successo, a dire il vero. Ci ricordiamo Karl Rove al fianco di Berlusconi, Stanley Greenberg con Rutelli, David Axelrod (quello del cagnolino) alle prese con Mario Monti. Vedremo all’opera, da ultimo, Jim Messina per un Renzi alla prova del prossimo referendum costituzionale. Quindi, vale la pena di dirlo subito: lo shopping model, l’approccio secondo il quale viene applicata, copiandola, la formula di campagna elettorale che è risultata vincente negli States, è un boomerang certo. Anche perché non c’è nulla di più organizzato, studiato, pianificato e misurato di una campagna alle presidenziali americane. In altre parole, una costruzione manageriale che non ha pari e che non ammette improvvisazioni.

FLASH 2: il metodo non si improvvisa, occorrono team con approcci scientifici e manageriali

Parte tutto, molti mesi prima, da poche stanze inaccessibili ai più, nucleo ristretto e ritrovo di menti spesso geniali, professionalità di altissimo livello, quasi tutti millennials. Creativi e illuminanti, vengono riuniti per progettare strategie e per mettere a terra i messaggi che verranno tamburellati su qualsiasi media. Sono loro il cervello della campagna da cui parte l’input al comitato centrale, che invece è il cuore dell’organizzazione (e che quest’anno ha sede a New York per la Clinton).

Dal comitato sono comunicate e monitorate le procedure applicate in ogni stato, in ogni centro abitato, in ogni quartiere. E lì si tornerà ogni volta per indirizzare l’impegno finanziario dove c’è più bisogno, per mobilitare le squadre di volontari, per dare un volto alle ricerche e testare le soluzioni elaborate nelle stanze inaccessibili di cui parlavamo prima.

Il “team data” è uno dei team più decisivi di cui si compone il comitato centrale. Raccoglie informazioni su interviste e questionari, codifica e riaggrega, fino a comporre una risposta perfettamente tarata sul singolo potenziale elettore. Una profilazione così accurata è lo specchio della gestione manageriale delle informazioni sensibili.

Così, uscendo da casa, trovi un ragazzo pieno di passione che supporta Hillary e ti legge sul suo iPad la risposta della candidata per i tuoi bisogni o per le tue aspirazioni. Anche per quelli che non hai ancora espresso. Il ragazzo è certamente un volontario, uno dei componenti del “team canvassing” della tua città. E poi c’è la telefonata che ricevi al cellulare, che non ti invita semplicemente a votare ma ti dice il perché, nel rispetto di un percorso preciso a cui tutti i volontari del “team phonebanking” si attengono fedelmente. Ma forse, chi si diverte di più in questo gioco, lavora nel “team eventi” e magari sta organizzando il “Party per Hillary” in una villetta della propria città. O spesso a casa sua.

FLASH 3: non serve convincere tutti, bisogna solo saper scegliere e focalizzarsi

Lo possiamo dire, la campagna USA è che molto più di una competizione tra due candidati. Sebbene sia tutta costruita su uno schema di scontro duale che è costantemente alimentato. Hillary contro Trump è il rosso contro il blu, è il bene contro il male, è la salvezza contro l’apocalisse. Tutto con lo scopo di rafforzare l’identità della singola comunità secondo una semplicissima regola binaria che fa dire con orgoglio: “Io sono la parte giusta”.

Se ci ricordiamo poi che il sistema di voto maggioritario è strutturato sui “grandi elettori” divisi per stati e assegnati in base al rispettivo peso demografico, è evidente che nei “Battleground States”, gli stati indecisi, si gioca la partita. E gli americani lo sanno, compresa la regia delle due campagne (solo per fare un esempio, nel 2008 per un cittadino dell’Ohio si arrivò a spendere quasi 10 dollari di investimento diretto per elettore. Un’enormità).

E per convincere questi elettori che decreteranno il successo o il fallimento di mesi di impegno politico, la tecnica è già collaudata e – mito da sfatare – nessuna campagna democratica recente, e tantomeno quella di Hillary, ha introdotto elementi di novità rilevanti. Il modello adottato è il medesimo, nessuno stravolgimento, solo naturale evoluzione. Basti pensare che perfino il famosissimo “yes, we can” di Obama era già stato utilizzato in una campagna di due anni prima.

Potremmo continuare con molti altri flash dagli USA pieni di utili insegnamenti e contemporaneamente sottolineare che, a oggi, non esiste un manuale del campaigning già pronto e che si possa importare immediatamente qui da noi. Così come non esiste un manuale del manager perfetto. Nelle campagne elettorali, come nella quotidianità dei manager, ci sono piuttosto modelli, procedure e strumenti che vanno combinati con sapienza per impadronirsi della possibilità di organizzare il potere, qualsiasi sia la variabile in campo.

Elio Pangallozzi, board junior Prioritalia,

Resp. Strategie “I Comunicatori”,

founder “Gruppo Giusto”