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Per un’Italia competente e competitiva

Pubblichiamo una sintesi della relazione che il Presidente Cuzzilla ha tenuto in apertura della nostra Assemblea nazionale – Roma, 15 novembre 2023.

Questa giornata è la migliore rappresentazione della vitalità della nostra categoria: noi manager stiamo dalla parte dell’Italia competente e competitiva e a questa ambizione ci rivolgiamo.

Una ambizione che non può che cominciare con l’appello alla riaffermazione della pace. L’Italia è una grande potenza mondiale chiamata a svolgere un ruolo determinante in questo ordine geopolitico nuovamente a rischio.  La fragilità degli equilibri tra le potenze riporta alla mente ciò che dovevamo aver imparato: non sappiamo quando e dove si scatenerà la prossima crisi, ma siamo certi che si presenterà.

Incertezza è il sostantivo che accompagna la descrizione del nostro presente: incertezza nei rapporti internazionali, economici e politici. Quando invece occorrerebbero stabilità, fiducia e pace.

Competenza e competitività sono invece i due elementi centrali della mia relazione. Uno è causa ed effetto dell’altro: non è possibile immaginare un Paese competitivo che non si affidi a persone capaci.

Vogliamo lanciare una sfida ambiziosa, da vincere superando alcuni paradossi che bloccano lo sviluppo e penalizzano l’Italia che vuole crescere.

Il primo paradosso sulla competenza è che tutti la invocano, in pochi la riconoscono e sempre in meno la premiano.

Per ristabilire il valore della competenza, bisogna capire di cosa essa si compone: un buon livello di istruzione, innanzitutto, talento in molti casi, esperienza sempre, e riconoscimento da parte dei propri pari. Insomma, la competenza per fare bene al sistema ha bisogno di essere riconosciuta a gran voce.

E a gran voce significa: primo invertire il trend di investimenti pubblici aumentando quel 4,1% del Pil che destiniamo al sistema dell’istruzione. Dobbiamo rinnovare il modello di istruzione, troppo ancorato al passato, e incentivare la formazione continua.

Secondo, valorizzare i talenti e trattenerli. Significa dotarsi di programmi di scale-up delle competenze, affinché le doti individuali possano trovare ecosistemi dove svilupparsi e crescere qui in Italia, aperti alle intelligenze di altri Paesi che dovremmo attrarre e poi trattenere, anche con sistemi di incentivazione al rientro dall’estero. Al primo gennaio di quest’anno 6 milioni di italiani hanno lasciato il nostro Paese, con una crescita del 2,2% sul 2022. In media, ogni cento giovani, 10 decidono di andarsene.

Terzo, riconvertire la narrazione sulle retribuzioni: a gran voce possiamo dire che gli stipendi italiani sono bassi, troppo bassi.  Apprezziamo lo sforzo finanziario che sorregge il taglio del cuneo fiscale, ma riteniamo che tanto il privato quanto la pubblica amministrazione debbano trovare nella contrattazione collettiva e in quella di secondo livello un volano per l’adeguamento delle retribuzioni verso l’alto.

Il Paese del tetto agli stipendi dei manager pubblici mentre cerca sotterfugi per aggirare l’ostacolo si sta privando delle migliori competenze manageriali, che preferiscono andare altrove dove sono meglio retribuiti e meglio riconosciuti.

È solo nel lavoro di qualità e ben pagato che può trovare corrispondenza la competenza di cui tutti sentiamo il bisogno.

E arriviamo a un altro paradosso: lo skill mismatch. Le imprese determinate ad assumere non trovano le competenze che cercano, nonostante gli oltre 500 mila posti di lavoro in più registrati quest’anno. Il mismatch avviene a ogni livello, anche per i manager: un’impresa su due fatica a trovare profili manageriali e oltre il 75% ha difficoltà a individuare le caratteristiche manageriali necessarie a gestire un processo, un’area o un cambiamento, come ha rilevato il nostro Osservatorio 4.Manager.

Questo disallineamento è eloquente in questi anni di crisi cicliche: nell’industria in particolare la richiesta di manager è cresciuta come reazione alla pandemia, quando si è rivelato essenziale avere una leadership in grado di trasformare il business e l’organizzazione aziendale, garantire continuità e diversificare mercati o prodotti.

Eppure, dagli anni ’80 agli anni Duemila, la probabilità che i lavoratori più giovani ricoprano posizioni manageriali è diminuita di due terzi, mentre è aumentata dell’87% tra i lavoratori più anziani.

Anche in questo caso, vediamo i rimedi.

Sarebbe miope additare il sistema dell’istruzione come unico ambito di disfunzione. Anche il sistema di politiche attive del lavoro non è mai decollato e dovrebbe invece basarsi sul combinato di formazione mirata del lavoratore e strumenti efficaci per l’incrocio tra domanda e offerta. Bisogna orientare il lavoro verso l’alto e verso il futuro.

Il secondo rimedio chiama in causa la demografia: nel 2050 avremo 7,6 milioni di ragazzi under 18, rispetto ai 9 milioni di oggi, vale a dire il 18% in meno. Per quella data avremo un rapporto tra individui in età lavorativa e restante popolazione di uno a uno, mentre oggi è di circa tre a due.

È importante da subito riconoscere ai nostri giovani opportunità professionali coerenti con le loro aspirazioni e con le esigenze delle imprese e dare il massimo supporto a chi decide di essere genitore, garantendo misure stabili e durature nel tempo. In particolare, per le donne, la maternità non può significare un peso, costringere al lavoro part-time o, peggio ancora, alla rinuncia al lavoro.

Bisogna accettare l’idea che lavoreremo più a lungo, non abbiamo alternative. Se ci sacrifichiamo per la sostenibilità del sistema, per le generazioni a venire, pretendiamo di giocare a carte scoperte. Nessuno deve ledere l’aspettativa verso le pensioni che ci siamo pagati di tasca nostra, quando una pletora di assistiti e di evasori e di criminali non dichiara nemmeno un euro in tutta la vita.

Se il sistema nel suo complesso non intende riconoscere il contributo che le sue persone svolgono a beneficio di tutti, tracollerà. Ci possiamo anche indebitare finanziariamente, ma non possiamo perdere capitale umano perché nessuno, né oggi né domani, ce lo può prestare.

L’ultimo paradosso sulla competenza riguarda le nuove tecnologie: l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite è potente. Se lo sviluppo della AI ci porterà a scenari di disoccupazione tecnologica oppure a nuovi lavori è presto per dirlo. Per ora, fatte le dovute eccezioni, il mondo produttivo sembra in ritardo: in Italia, l’Intelligenza artificiale è adottata dall’1,5% delle piccole imprese e dal 12% di quelle con più di 250 dipendenti.

Vedo due strategie d’attacco possibili: gli incentivi all’investimento in capitale umano che devono andare di pari passo con quelli per le tecnologie abilitanti, sforzo che deve essere guidato dalla mano pubblica e, la seconda azione, riguarda la cooperazione tra Stati. Bene farà il prossimo G7 a guida italiana a metterlo in agenda.

Dobbiamo predisporre piani di contingenza più efficaci per tramutare in realtà la seconda parte del progetto a cui è dedicato il mio intervento, ovvero la realizzazione di un’Italia competitiva e affermata nel mondo.

Riforme e investimenti sono le due leve essenziali su cui si costruisce la competitività, ma le prime soffrono del giogo della politica, che raramente sostiene cambiamenti strutturali in tempi accettabili. Gli altri sono soffocati dal carico normativo e burocratico, che è la terza causa economica del mancato investimento estero in Italia, dopo la corruzione e la lentezza della giustizia.

Quand’anche si esce vincitori dal groviglio burocratico e normativo, si viene risucchiati in un mercato dove la concorrenza è negata da posizioni dominanti, da clientelismi e concorrenza sleale e da un’esorbitante evasione fiscale. Anche il gettito Irpef rivela che un italiano su due si dichiara nullatenente e non versa nemmeno un euro di imposte.

Fin qui gli ostacoli da rimuovere. Abbiamo però risorse da attivare che non sfruttiamo abbastanza. Il Pnrr, il tema della sostenibilità e una nuova fase di sviluppo basato sull’innovazione: su questi tre assi, si può costruire una macchina pubblica efficiente e moderna, una strada veloce verso l’economia verde e sostenibile, un modello di industria innovativo.

A gran voce diciamo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta un vero polmone. È il volano per realizzare infrastrutture fisiche e digitali, scuole e programmi di ricerca, impianti rinnovabili e ospedali di comunità. Per ristabilire coesione sociale nell’attivarci verso i grandi obiettivi trasversali che pone: donne, giovani e Mezzogiorno. È il debito buono che abbiamo contratto in Europa a vantaggio delle prossime generazioni.

Voglio inoltre sottolineare che il Pnrr non è un piano di spesa, è un piano di risultato. Serve a promuovere riforme e investimenti, che sono gli unici a poter spingere verso l’alto la crescita potenziale. Servono competenze, capacità di execution e metodo manageriale per assicurarci che questo Piano da grande occasione storica non diventi un’occasione mancata.

A gran voce, poi, dico sostenibilità, che va di pari passo con le urgenze della crisi climatica in atto. È la strategia vincente del presente, non del futuro. E tutto indica che chi sarà capace di perseguire gli obiettivi di decarbonizzazione sarà premiato dal mercato.

A gran voce, infine, affermiamo che abbiamo l’obbligo di rinnovare la nostra strategia di politica industriale. L’industria è ciò che ha reso grande l’Italia tra i grandi, è ciò che ha reso il prodotto italiano unico, esclusivo, imitato nel mondo.

Dobbiamo scegliere con parsimonia su cosa investire, essere in grado di attrarre capitali esteri, valorizzare gli investimenti in economia reale, creare un ambiente favorevole al private equity e al venture capital.

La nostra manifattura ha bisogno di essere sostenuta a livello di politica industriale e non ci salverà da sola la golden power. Non basterà la protezione da fenomeni di dumping delle produzioni estere e da acquisti predatori, se non avremo rafforzato la dimensione delle imprese e la loro capacità di managerializzarsi.

Prima di vendere alcune grandi aziende o pezzi di esse, chiediamoci qual è la strategia industriale che stiamo perseguendo e cosa intendiamo farne dei soldi che ne trarremo, se andranno – come dovrebbero – a rafforzare il sistema impresa.

Una rinnovata politica industriale deve riconsiderare in termini di risorsa la nostra posizione nel Mediterraneo come porta d’Europa. Per riuscirci abbiamo bisogno anche di politiche europee di sintesi capaci di coordinare gli investimenti degli Stati membri affinché non accada che ognuno vada per sé. Anche la Zes unica può diventare una risposta di politica industriale a patto che alleggerisca il Mezzogiorno dal peso del ritardo accumulato.

Soltanto noi, siamo quelli che possono rimuovere gli ostacoli di cui soffriamo. Perché sappiamo, come è stato detto, che “non bastano le antiche glorie a darci la grandezza presente, così come non bastano i presenti difetti a toglierci la grandezza futura, se sappiamo volere, se vogliamo, sinceramente rinnovarci”.

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