A gennaio di quest’anno il Word economic forum (Wef) ha emanato otto principi guida per indicare, a chi siede nei board, la migliore strategia di governo del climate change. In premessa, si riconosce l’effetto disruptive che i cambiamenti climatici stanno generando anche sul mondo del business. In conclusione, si richiama l’urgenza di una call to action che investe direttamente la leadership. L’ambiente è diventato un tema di governance. Per capire le implicazioni di questa evoluzione, Progetto Manager ha intervistato Sabrina Bruno, docente di Law and Economics all’Università Luiss Guido Carli e Chair dell’Italian climate governance chapter, da poco in Nedcommunity, l’associazione italiana dei consiglieri indipendenti.
Sabrina Bruno, docente Law and Economics all’università Luiss, chair dell’Italian chapter del WEF sul clima
Professoressa, nel mondo i consigli di amministrazione iniziano a occuparsi della questione climatica?
In alcuni Paesi (UK, Francia, Malesia, Italia) sono stati costituiti chapters nazionali per diffondere l’iniziativa del Wef e sensibilizzare le imprese sugli effetti dei cambiamenti climatici. Ciò è necessario perché è il Cda che ha la responsabilità di governare i rischi e le opportunità derivanti dall’emergenza climatica. Finora la legislazione europea, con la Direttiva N. 2014/95/EU in materia di dichiarazione non finanziaria, si è occupata di trasparenza in tema (anche) di clima con riferimento a società di grandi dimensioni, banche, assicurazioni. Per tutte le altre realtà non c’è legislazione specifica. Eppure il clima costituisce un rischio finanziario che deve essere ben considerato per una corretta gestione del patrimonio aziendale.
In che modo il clima rappresenta un rischio finanziario?
La Task force, istituita dal Financial stability board, ha emanato raccomandazioni che individuano i rischi fisici come inondazioni e altri fenomeni metereologici estremi e i rischi che derivano dalla c.d. transizione energetica, vale a dire le innovazioni tecnologiche, le disposizioni di legge che limiteranno l’emissione di Co2, le possibili azioni di risarcimento dei danni, etc… Si tratta di fattori che, se non vengono ponderati, potrebbero causare l’uscita dal mercato di un’impresa. Si pensi che la nuova Commissione europea ha annunciato interventi, come la carbon border tax e altre misure affinché in Europa si raggiunga l’obiettivo di zero emissioni di Co2 entro il 2050. L’alternativa è: o considero il pagamento della tassa o di altre sanzioni nel mio piano finanziario oppure devo trovare meccanismi tecnologici o soluzioni energetiche differenti.
Fenomeni metereologici e transizione energetica sono rischi finanziari da considerare per una tutela del patrimonio aziendale
Quindi, il rischio si può volgere in opportunità?
Chi siede in un board dovrebbe porsi queste due domande: il mio modello di business è resiliente rispetto ai rischi che derivano dal cambiamento climatico? E quali sono le opportunità da sfruttare? Faccio un esempio: se produco o utilizzo plastica, non posso pensare di resistere sul mercato per sempre. La plastica sarà bandita, c’è la Direttiva europea N. 2019/904/UE che prevede precise restrizioni. Le società devono porsi in questa prospettiva e pensare di adattare il proprio modello di business.
Chi siede in un board oggi dovrebbe porsi questa domanda: il mio modello di business è resiliente rispetto ai rischi e alle opportunità che derivano dal cambiamento climatico?
Qualche esempio di azienda che ha cambiato la sua programmazione aziendale?
Può valere l’esperienza di Snam, dove è stato compiuto un ripensamento del modello di business. Leader europeo nelle infrastrutture per il gas, negli ultimi anni ha indirizzato investimenti sullo sviluppo del biometano, una fonte pulita perché deriva dagli scarti agricoli. Snam ha altresì previsto investimenti per l’utilizzo dell’idrogeno, anch’esso pulito. Anche Eni si propone di limitare le emissioni di Co2 e di compensarle con progetti di riforestazione. Se entro il 2050 l’Europa vuole diventare neutrale rispetto all’emissione di Co2, è necessario attendersi norme e sanzioni per chi non rispetta i limiti.
Come devono comportarsi i membri di un Cda rispetto a questi obiettivi?
I principi del Wef, oltre a prevedere la responsabilità del Cda sul clima, richiedono agli amministratori di essere competenti in materia. Si può discutere se ci sia bisogno di uno “scienziato del clima” al tavolo del Cda. Io credo che sia importante per un board assumere decisioni integrando le varie competenze, con l’ausilio di esperti esterni o di strumenti previsionali sempre più precisi, sviluppati sul mercato. Prima di decidere, il Cda dovrebbe prendere in considerazione i possibili scenari di cambiamento climatico – da 1.5° a 3° o 4°C – perché nessuno sa quale di questi si verificherà nei prossimi anni e, a seconda dello scenario, quali saranno le conseguenze. Certamente il tema, in particolare per ciò che riguarda la competenza, investe tutte le linee di management da coinvolgere pienamente nella governance del clima.
A suo avviso, quanto è diffusa questa competenza in azienda?
C’è ancora molto da fare. Le società di maggiori dimensioni in Europa, come detto, sono “aiutate” dalla disciplina in materia di trasparenza nella dichiarazione non finanziaria, ma le altre società non hanno questo impulso e devono aumentare la propria consapevolezza e competenza. In occasione della climate week di settembre a New York, la pubblica opinione ha puntato i fari sulla crisi ambientale, ma a livello di Cda, ad esempio, le linee guida del World economic forum sono poco conosciute e diffuse.
Quali sono i rischi di responsabilità per gli amministratori?
I Cda hanno l’obbligo di gestire con diligenza la società e quindi di perseguire l’interesse della società in modo che il patrimonio aumenti di valore. Se scrivo nella dichiarazione non finanziaria che c’è un rischio e non lo gestisco, posso essere citato per danni dagli azionisti se il patrimonio sociale subisce delle perdite; se viceversa non indico questo rischio, posso subire un’azione di responsabilità per informazioni non corrette. Mi riferisco alla responsabilità civile per danni e questa è comune a tutti i membri di Cda.
E nel caso di società medio-piccole che non sono tenute a dover rendicontare per iscritto le scelte in materia di ambiente?
Premesso che sia il rischio regolatorio sia quello fisico rappresentano un’evenienza possibile per tutte le imprese, il codice civile nello stabilire l’obbligo di diligenza degli amministratori non distingue in base alle dimensioni della società, né in base al fatto che ci sia un amministratore unico invece che un Cda. Tutti gli amministratori hanno l’obbligo di essere diligenti. È ormai un fatto notorio che l’emergenza climatica comporti notevoli rischi, nessun amministratore potrà mai difendersi dicendo di non averlo saputo. In ogni caso, l’art. 375 del D.Lgs. N. 14/2019 ha modificato l’art. 2086 comma 2 c.c. che ora estende l’obbligo di “definizione degli assetti amministrativi, organizzativi e contabili” e di valutazione della loro adeguatezza in considerazione della natura e delle dimensioni dell’impresa, a tutte le imprese societarie o collettive.
Un comma di legge che cambia tutto?
In virtù di questa norma, ogni società ha l’obbligo di definire gli assetti strategici anche in termini di sostenibilità, e quindi di avvalersi di un’organizzazione che preveda: la distribuzione di responsabilità tra i manager che abbiano le competenze giuste, un sistema contabile trasparente per la corretta rappresentazione in bilancio, le giuste procedure e un’adeguata gestione dei rischi. In questa norma rientra anche il rischio climatico.