Una legge nazionale sulla sostenibilità

In attesa di veder compiuto il Green new deal italiano, abbiamo chiesto a Enrico Giovannini, portavoce ASviS, valutazioni e proposte per aiutare il Paese ad affrontare con concretezza la sfida ambientale

Già Chief statistician dell’Ocse, presidente dell’Istat e ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Enrico Giovannini è uno dei massimi esperti di sostenibilità nel nostro Paese. Dal 2016 è portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), iniziativa nata per supportare il raggiungimento dei 17 goal previsti nel quadro dell’Agenda 2030 dell’Onu (Sustainable development goals – SDGs). In questa intervista a Progetto Manager, Giovannini ragiona sugli ultimi provvedimenti in tema di sostenibilità, tra indirizzo politico e strategia di impresa.

Enrico Giovannini. portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS)

Professore, la sostenibilità sta diventando un criterio guida delle decisioni politiche. Prima il decreto clima del ministro dell’Ambiente Costa, poi la discussione avviata sulla prossima legge di Bilancio. Come giudica gli ultimi interventi promossi dal governo?

Il decreto clima, nella formulazione che è stata approvata, è certamente un provvedimento che va nella giusta direzione, ma avrebbe avuto un impatto maggiore se avesse fatto fare un passo avanti nella governance della sostenibilità. Tra i temi originariamente in discussione per il provvedimento, vi era quello della creazione, all’interno del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), di un sottocomitato per la transizione climatica, mirato a realizzare l’obiettivo di una carbon neutrality italiana al 2050, come delineato dal presidente Conte. La parte sulla governance è stata invece stralciata dal decreto, auspico che venga recuperata in sede di discussione della legge di Bilancio.

Manca quindi ancora un coordinamento nazionale efficace?

Sì e per questo come ASviS ci siamo spinti ancora oltre, proponendo al governo di trasformare il Cipe in un Comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile. Perché è dal Cipe che passano le risorse per investimenti e infrastrutture. È prioritario un orientamento complessivo della governance delle politiche economiche, sociali e ambientali. Si pensi al Goal 15 dell’Agenda Onu: in Italia abbiamo forti criticità sul tema del consumo del suolo perché in questi anni è mancata una legge nazionale e le Regioni hanno provveduto in ordine sparso. Ecco perché proponiamo che l’Italia si doti di una legge annuale sullo sviluppo sostenibile complementare alla legge di Bilancio, uno strumento in grado di definire provvedimenti settoriali, ma in un’ottica sistemica, per orientare tutte le politiche al raggiungimento degli SDGs.

Stringenti criteri di sostenibilità sono ormai imprescindibili anche per le imprese…

Certamente, anche perché è forte il differenziale di produttività tra imprese che investono sulla sostenibilità e quelle che non lo fanno. Per le aziende conviene “pensare sostenibile” e spero che, secondo quanto affermato dal ministro Gualtieri nell’evento di presentazione del nostro Rapporto il 4 ottobre scorso, si possa arrivare alla promozione di un sistema che connetta gli incentivi previsti da Impresa 4.0 con investimenti aziendali in economia circolare. In tal modo si favorirebbe una crescita dell’economia “digi-circolare” che possa beneficiare delle buone pratiche già introdotte attraverso gli incentivi di Impresa 4.0.

Spero si possa arrivare alla promozione di un sistema che connetta gli incentivi previsti da Impresa 4.0 con investimenti aziendali in economia circolare

Perché non si vive di soli incentivi, non è così?

Gli incentivi monetari non sono tutto, ci sono misure come l’obbligo di rendicontazione non finanziaria (Dnf) previsto dal D.lgs. 254/2016, che stanno davvero orientando i processi imprenditoriali verso lo sviluppo sostenibile. Anche in questo caso però si può fare di più, abbassando la soglia dimensionale delle imprese tenute a presentare la Dnf, sul modello di quanto fatto in Spagna. Lì, ad esempio, hanno allargato la platea alle imprese con 250 addetti, concedendo tre anni di transizione per mettersi in regola. È la strada giusta per responsabilizzare anche gli attori privati.

Poi c’è il tema della tassazione disincentivante. È di questi giorni la discussione politica in merito all’introduzione di una “plastic tax”. Cosa ne pensa?

Quello della plastica è un tema complesso. Riporto un dato: in Italia i sussidi dannosi dal punto di vista ambientale sono pari a 19 miliardi di euro. E abbiamo una legge, la n.221/2015, che prevede che questi incentivi siano smantellati non per far cassa, ma per trasformarli in sussidi allo sviluppo sostenibile. Per la plastica l’Italia dispone già di un quadro regolatorio significativo, bisogna quindi evitare di assumere decisioni che si sovrappongano a misure esistenti. È però molto positivo che in tutto il mondo sia maturata una sensibilità nei confronti del problema-plastica, ma bisognerebbe spingere le imprese a fare ricerca su tecniche di produzione di materiali alternativi, che rappresentano il futuro.

E per cambiare e comprendere il mercato, c’è bisogno di nuove figure, di competenze. Sta crescendo la domanda di manager della sostenibilità?

Dalle nostre rilevazioni emerge come le imprese si stiano sempre più dotando di figure manageriali specializzate nella sostenibilità. Manager che, all’interno delle strutture organizzative, siano capaci di integrarsi con altre professionalità come, ad esempio, gli energy manager. Le funzioni tradizionali della Csr stanno evolvendo verso competenze riguardanti la sostenibilità a tutto tondo e ciò comporta una logica elevazione della figura professionale. Ecco perché oggi il manager della sostenibilità deve operare a stretto contatto con l’Ad all’interno dell’azienda.

Le funzioni tradizionali della Csr stanno evolvendo verso competenze riguardanti la sostenibilità a tutto tondo

In tal senso quanto conta il tema della formazione?

È centrale. Disponiamo di figure professionali certamente capaci, ma sono poche rispetto alla domanda che emerge dalle imprese.

Ad esempio, sto collaborando con la Scuola nazionale dell’amministrazione per la formazione di sustainability manager del settore pubblico e percorsi simili si stanno realizzando per il settore privato. Una visione integrata della sostenibilità richiede competenze economiche, ingegneristiche e, soprattutto, la capacità di cogliere le opportunità offerte dall’innovazione. In Italia la maggior parte delle piccole e medie imprese non ha ancora un’organizzazione adeguata a recepire la figura del sustainability manager; per questo bisogna promuovere una cultura che aiuti a comprendere le tante opportunità di business all’orizzonte. Sono esigenze che sul mercato si stanno diffondendo con grande rapidità e in questa corsa al futuro della produzione è evidente che “i primi saranno i primi”.

In conclusione, cosa aspettarsi alla vigilia dell’insediamento della nuova Commissione Ue?

Mi auguro che quella di Ursula von der Leyen non sia solo la Commissione dello European Green Deal, ma un’istituzione in grado di affermare una visione incentrata sulla giustizia nel rapporto tra generazioni. Non a caso tra le proposte in campo c’è quella di impostare il Semestre europeo, cioè lo strumento di coordinamento delle diverse politiche, sui goal dell’Agenda 2030. Questo dovrebbe consentire a tutti i Paesi membri di compiere un effettivo salto di qualità nella definizione di politiche verso lo sviluppo sostenibile. L’Italia dovrà essere pronta a dialogare con il nuovo esecutivo Ue, offrendo un contributo determinante.

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