Se nove mesi vi sembran pochi, tenete a mente che gli accordi di ultima generazione richiedono fino a cinque anni di trattative. A dispetto di come è stato raccontato, il deal tra Unione europea e Gran Bretagna, tutto sommato, è stato un divorzio lampo. «La prima volta che si è lavorato per mettere delle nuove barriere commerciali dove erano state abbattute. Non certo un accordo win-win. Piuttosto lose-lose, in cui tutti sono usciti più indeboliti». Alessandro Terzulli, chief economist di Sace, cita il capodelegazione Michel Barnier. Da qui parte la nostra conversazione.
Alessandro Terzulli, chief economist di Sace
Dottor Terzulli, quindi, cosa abbiamo guadagnato dall’accordo di dicembre?
Non abbiamo perso il nostro quinto mercato, innanzitutto. Avevamo calcolato il costo di un no-deal per l’Italia: -12,1% rispetto al dato 2020 che era già negativo, contro un +5,3% in caso di accordo. Siamo in una fase di transizione. Alcuni capitoli sono rimasti scoperti, mentre gli effetti della Brexit sono persino stati attenuati dalle contromisure che sono state prese. Come ha detto il commissario Gentiloni, però, ci vuole tempo ed è probabile che nei prossimi mesi ci saranno maggiori frizioni. Si è aperto un anno di sperimentazioni: bisogna applicare le parti su cui si è trovato l’accordo, dai controlli frontalieri, alla questione degli standard fino al portale europeo Rex, e informare il più possibile sulle nuove regole.
E poi trovare l’intesa sugli altri aspetti, in primis sui servizi finanziari che sono i grandi esclusi dalla trattativa. È d’accordo con chi ha commentato che il deal su Brexit è un no-deal per la City?
È significativo che l’Ue abbia chiesto un filo diretto tra i capi negoziatori, vuol dire consentire uno speed-up del processo con il dialogo che continua ad alti livelli. È una richiesta sensata per evitare momenti di stallo, proprio in vista del capitolo finanziario su cui si deve lavorare a testa bassa. Il clima è di diffidenza tra gli attori. La Gran Bretagna ha già riconosciuto i diritti degli operatori finanziari europei sul suo mercato, ma l’Ue non ha fatto altrettanto. La mancanza di reciprocità non è un buon segnale. Il tempo ci vorrà, ma servirà soprattutto una strategia.
La Gran Bretagna ha già riconosciuto i diritti degli operatori finanziari europei sul suo mercato, ma l’Ue non ha fatto altrettanto. La mancanza di reciprocità non è un buon segnale
La piazza di Amsterdam intanto ha superato Londra per volumi di scambi. La finanza si sta spostando?
In realtà, già nel 2020 i volumi di trading erano a vantaggio di Amsterdam. Da tempo si parla di Francoforte, persino di Milano, come possibili piazze alternative. Indubbiamente abbiamo assistito a degli spostamenti, ma non c’è stato un effetto sismico. L’importante è ridurre le incertezze sugli operatori. Per le imprese che investono in Uk la logica waiting and see rischia di diventare dannosa.
Con quale impatto sull’export italiano?
Sia che parliamo di beni sia di servizi finanziari, è utile tracciare una distinzione tra chi è semplicemente un esportatore in Uk e chi è un investitore diretto nel Regno Unito, nel senso che lì ha unità produttive, stabilimenti e legami di internazionalizzazione più attivi. L’export di beni italiani in valore è pari a oltre 25 miliardi di euro, a fronte di importazioni per quasi 12 miliardi. Questo elevatissimo avanzo commerciale è il secondo che vantiamo, dopo quello con gli Usa. Non vogliamo sostenere che maggiore è l’avanzo commerciale più convenienti siano le relazioni internazionali, ma per noi il Regno Unito resta uno dei mercati che, dopo la crisi del 2009, si è ripreso meglio.
Succederà di nuovo, dopo Brexit e pandemia?
La stima del +5,3% per il 2021 va ritenuta ancora valida. Parlo del massimo della forchetta, perché l’incertezza è ancora molta, ma l’altra parte della forchetta è uno 0, non un numero negativo. L’effetto di scorte accumulate a fine 2020 ha fatto recuperare e chiudere l’anno con 22,4 miliardi di export, segnando un -11,1% sul 2019 e non il -14% che avevamo previsto noi in Sace. Quello di alimentari e bevande è l’unico settore che ha chiuso con il segno più. Comunque il vaccine rollout finora è stato positivo, 15 milioni di vaccini inoculati, e questo influirà sulla ripresa. Nonostante lo sforzo di tutti di adottare le autocertificazioni, di non bloccare le dogane, di fare dei controlli sugli standard, un ritorno ai livelli del 2019, a quei 25 miliardi di export di beni che citavo, non solo non si verificherà nel 2021, ma sarà difficilmente agganciabile anche nel 2022.
Fonte dati Istat
Con questa prospettiva, a cosa andranno incontro le nostre imprese?
Le imprese di dimensioni maggiori, che esportano già in paesi extra-Ue e sono dotate di export team, sistemi di fatturazione internazionali, strutture dedicate, sono relativamente attrezzate a rapportarsi alla nuova Gran Bretagna. Per le Pmi, comprese quelle per cui la Gran Bretagna è diventata l’unico mercato extra-Ue, bisogna ammettere chiaramente e senza fare terrorismo che servono le competenze. Se posso dare un consiglio, meglio rivolgersi a un export manager per la gestione del mercato Uk e delle opportunità internazionali che ci sono. Ed essere sempre aggiornati con l’Agenzia delle dogane, con l’Ice, la Sace e l’Ambasciata italiana a Londra.
Per molte Pmi ora si tratta di rapportarsi con l’unico partner extra-Ue. Servono competenze, come quelle di un export manager
Anche perché i dazi non sono scomparsi, vero?
L’iscrizione al portale Rex è importante perché in base al settore merceologico di appartenenza, che corrisponde a un codice doganale, si individua se l’impresa possiede o meno una prevalenza di beni di origine europea. Solo nel caso in cui l’Ue sia il primo mercato, nel senso che il bene è fatto o lavorato qui, l’accordo di libero scambio garantisce l’impresa. Invece se i beni transitano nella Ue, ma sono prodotti o lavorati in paesi terzi, il test dell’origine non è superato e si applicano dei dazi. Non è detto che si vada incontro a questo esito, perché se le regole di origine ci dicono che il bene è Ue, il dazio non c’è.
Cosa pensa del “Boris’ burrow”, il fantomatico tunnel tra Scozia e Irlanda del Nord?
Rispondo con una battuta. Se si lavora sull’accordo con l’Europa garantendo regole fluide e integrandolo sui settori non coperti, se si evitano problemi logistici e questioni doganali, potrebbe non esserci bisogno di un tunnel.