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A macchia d’odio

Le donne sono il principale bersaglio dell’hate speech, spesso amplificato dal lato oscuro dei canali digitali. L’analisi dell’associazione GiULiA giornaliste.

C’è un paradosso dei nostri tempi: più le donne si affermano, ancora con troppa fatica, nello spazio pubblico, offline e online, più le piattaforme social fungono da moltiplicatore di attacchi misogini e sessisti. Come se il mondo digitale che associamo all’innovazione facesse riaffiorare il paradigma patriarcale che ci preferisce mute e “al nostro posto” e punisse le donne più in vista grazie alle loro competenze e al loro expertise usando come strumenti di discriminazione parole d’odio e stereotipi. Il meccanismo emerge lampante in tutte le ricerche che analizzano la qualità e quantità dei messaggi sui social network, dalle ricerche Unesco, al Barometro dell’odio di Amnesty international alla Mappa dell’Intolleranza di Vox osservatorio dei diritti.

Dal punto di vista “reputazionale” quello che abbiamo misurato nel nostro lavoro negli ultimi anni, come associazione GiULiA giornaliste, grazie anche alla collaborazione alla Mappa dell’intolleranza, è che le donne sono sempre di gran lunga in testa alla classifica dei bersagli dell’hate speech (più di ebrei, mussulmani, immigrati, persone Lgbtqia+, persone con disabilità) e che il principale elemento di discredito è costituito proprio dal genere. Le donne, che sono maggioranza nella realtà, vengono riclassificate a causa del loro genere a minoranza. Se si vuole screditare una giornalista, un’imprenditrice, una politica, il fatto di essere una donna costituisce una diminutio, sottolinearlo vuol dire fare emergere che quella donna in quella posizione che ha detto o fatto quelle cose è un’”usurpatrice di genere”.

Nella nostra ricerca #Staizittagiornalista! Dall’hate speech allo zoombing (2020 Rizzi-Garambois, AllAround) che ha riguardato in particolare le professioniste dell’informazione, le testimonianze raccontano come a parità di temi trattati, per esempio un argomento incendiario come l’immigrazione, capace di scatenare vere shitstorm sui social, solo alle colleghe capita di essere attaccate non per quello che raccontano ma per quello che sono, cioè donne. Per gli uomini il genere non basta, occorre una caratteristica in più (essere ebreo, omosessuale, afrodiscendente) per essere colpito in quanto persona.

Nella nostra ricerca che ha riguardato le professioniste dell’informazione, le testimonianze raccontano come, a parità di temi trattati, solo alle colleghe capita di essere attaccate non per quello che raccontano ma per quello che sono, cioè donne

I meccanismi di discredito, per quanto veicolati da nuovi canali, sono vecchi come il mondo: lo slut shaming, ovverossia dare della prostituta, sottintendendo che si occupa una certa posizione (inviata del Tg per esempio) in cambio di favori sessuali. Un altro è il body shaming, perché il corpo delle donne è sempre sottoposto a giudizio e fa parte degli elementi che costituiscono l’appeal reputazionale. Fino alle vere e proprie minacce di stupro. Una delle ricerche a cui abbiamo collaborato con Vox riguardava l’analisi di diversi profili su Twitter di politiche, economiste, scienziate, giornaliste. Solo le politiche battono le giornaliste come bersagli dell’odio digitale e la più odiata era l’attuale Presidente del Consiglio, ai tempi all’opposizione.

Ma nulla sembra cambiare nemmeno nel momento in cui una donna diventa per la prima volta nel nostro Paese Presidente del Consiglio. Non basta a modificare il frame narrativo nel quale sono inserite tutte le altre donne. Da questo punto di vista la recente discussione sulla sottorappresentazione di genere nei board svela quello che è un vulnus costante. Il caso è scoppiato relativamente al rinnovo degli incarichi in Cassa Depositi e Prestiti, dove si è cercato di aggirare il sistema delle quote per le società quotate in borsa previsto dalla legge Golfo Mosca.  Sistema che viene spesso contestato perché non sarebbe basato sul merito. Bene ha spiegato l’economista Veronica De Romanis in un articolo sulla Stampa che in un sistema distorto che cancella pervicacemente le competenze delle donne, occorrono forzature per riparare quella distorsione con un’altra distorsione, partendo dal dato a valle che dimostra incontestabilmente come più donne ai vertici fanno crescere le performance di aziende e società. De Romanis tra le altre cose è una delle economiste che aderiscono al database 100 esperte, nato proprio da un’iniziativa di Giulia, assieme a Osservatorio di Pavia e Fondazione Bracco, per fornire uno strumento concreto per controbilanciare quello squilibrio informativo che sui media oscura la presenza delle donne esperte nei vari settori (Stem, economia e finanza, geopolitica, storia e filosofia, sport). Il database raccoglie centinaia di profili qualificati per favorire una contro narrazione più obiettiva ed equilibrata e fa parte della rete Enwe, un network europeo di database di esperte, perché la discriminazione di genere non è una prerogativa solo italiana. Un aspetto che ci riporta al punto di partenza: se i media oscurano le competenze professionali delle donne, contribuiscono a rinforzare quel racconto basato su stereotipi che legge le donne che spiccano come un’eccezione in un sistema che al massimo le tollera o alla peggio prova ad espellerle anche attraverso l’arma impropria dell’hate speech. È un dato di fatto, per esempio tra le giornaliste da noi interpellate, che la violenza di genere digitale possa spingere a ritirarsi per alcuni periodi dallo spazio pubblico, oppure a non occuparsi più di certi temi che possono scatenare le aggressioni. Effetti concretissimi insomma non solo in termini reputazionali ma anche di benessere psicologico e sociale e infine di qualità della nostra democrazia.

Da questo punto di vista emerge anche il grandissimo tema della moderazione, in cui sono molti i soggetti ad avere responsabilità: oltre ai grandi monopolisti, tutti gli influencer in senso lato, tra cui anche il mondo politico e gli stessi media, che contribuiscono auna polarizzazione del dibattito pubblico in cui viene premiato chi alza di più la voce e attacca più violentemente. C’è un difficile bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della dignità dei singoli e del principio di non discriminazione. Non si tratta di limitare la libertà di espressione ma di un’etica della responsabilità sulla base della consapevolezza che le parole hanno conseguenze e che la violenza verbale basata sulla discriminazione, in particolare quella di genere, si configura come una violazione dei diritti umani la cui tutela deve diventare prioritaria anche nell’agenda politica.

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