Siamo in un mondo post-TTP. Le chances di siglare grandi partnership commerciali multilaterali tra le regioni più industrializzate del pianeta sono state spazzate via insieme ai lunghi negoziati che abbiamo sostenuto per avvicinarci a una firma che poi è mancata e che è ormai impraticabile.
Non c’entra il merito di quel trattato, che si può discutere in termini di opportunità e di minacce. C’entra, piuttosto, il nuovo ordine economico globale che si sta componendo e che sta rivoluzionando i rapporti di interscambio tra i Paesi come li abbiamo conosciuti negli ultimi 15 anni.
Il 2001 non è stato solo l’anno dell’11 settembre, ma anche quello dell’entrata della Cina nella WTO. L’America del 2017 sembra voler fare a meno di quella Organizzazione.
L’altalena di Trump pone molte incognite sugli equilibri del commercio internazionale: un giorno, teso ad alzare le barriere doganali e a chiudersi in un protezionismo economico che è concausa del nuovo nazionalismo repubblicano; il giorno successivo, pronto con un programma in dieci punti a stringere l’alleanza con Pechino.
Intervistato dal direttore di Bloomberg qualche settimana fa, Trudeau, il presidente canadese che molti identificano come l’anti-Trump, ha dichiarato di essere molto interessato a continuare il dialogo con l’Asia, dopo aver superato con grande fatica i mille ostacoli all’approvazione del CETA.
È l’Oriente, e la Cina in particolare, che sta assumendo un inatteso ruolo di leadership “illuminata”. Non più gli Stati Uniti né tantomeno l’Europa, che oscilla nell’instabilità, dove ogni voto nazionale è un referendum sulla sua stessa sopravvivenza.
Ci prepariamo insomma ad affrontare il paradosso per cui il Gigante asiatico si presenterà a breve alla nostra porta come paladino della difesa del clima, unico deus della crescita economica globale e perfino detentore della speranza di un mondo senza conflitti. Il progetto della Nuova Via della Seta si inserisce perfettamente in un disegno geopolitico dove, potremmo dire, tutte le strade porteranno a Pechino.
Capiamo che in questo nuovo ordine globale l’Europa deve acquistare centralità e l’Italia deve rivendicare stesso ruolo in Europa. Il rischio, dopo Brexit e con la vittoria di Macron, è quello del ritorno di un asse franco-tedesco che ci vedrebbe esclusi. Per questo è bene che il nostro Paese sia protagonista a Bruxelles.
Le previsioni economiche di primavera che la Commissione Ue ha presentato in queste ore ci dicono che, nonostante la vitalità della nostra produzione, il nostro Paese è quello che crescerà meno nel 2017-2018.
Le basse prospettive di crescita sono dovute all’incertezza politica e al lento aggiustamento del settore bancario. Resta particolarmente alto il livello della disoccupazione giovanile, così come in Spagna e Grecia.
E poi ci sono rischi esterni, legati alla politica economica e commerciale degli Stati Uniti, e più in generale, alle tensioni geopolitiche (a partire da Mosca). L’aggiustamento economico della Cina, lo stato di salute del settore bancario in Europa e i prossimi negoziati con il Regno Unito sull’uscita dall’UE sono anch’essi considerati come possibili rischi di revisione al ribasso delle previsioni.
Dunque, che fare?
Innanzitutto capire che in Europa non possiamo mandare a rappresentarci i primi dei non eletti. Secondo, renderci conto che l’Unione europea ha costruito un sistema di strumenti di finanza e di mercato che costituisce un’opportunità enorme e che come Paese non sfruttiamo a sufficienza, anche per mancanza di una cultura europea. Terzo, insistere sulla azione centrale del nostro management che è capace di trovare interlocutori e partner comunitari con i quali realizzare progetti di sviluppo economico strategici per la nostra Penisola.
C’è infine un aspetto da sottolineare, che emerge anche nel report della Commissione Ue e che riconosce un’elevata fiducia nella nostra manifattura, che potrebbe implicare una domanda esterna più forte di quella identificata dalle previsioni.
La manifattura è ancora il cuore di questo Paese e oggi ha di fronte un’occasione unica: la trasformazione digitale della produzione, delle infrastrutture, dei processi e dell’organizzazione aziendali.
Quando parliamo di Industria 4.0 si ha la sensazione che ci si riempia la bocca di una parola senza coglierne il senso: per quanto congiunturali, le scelte di investimento pubblico su Industria 4.0 sono la spinta per modernizzare il Paese. Noi auspichiamo anche per accelerare gli investimenti in capitale umano, che è il vettore principale di realizzazione di un Piano così ambizioso.
Quindi, investimenti in competenze altamente qualificate in grado di capitalizzare l’apporto delle nuove tecnologie e misure di sostegno all’export, a partire da un fisco più leggero e da meno burocrazia. Nel 2016 l’export italiano è stato il fattore responsabile della chiusura con un Pil positivo. L’anno prossimo probabilmente le esportazioni arriveranno al +3%, che non è certamente il dato storico migliore, ma sicuramente più alto di quello 2016.
Il ritmo della ripresa è ancora troppo lento e la dinamica della domanda interna è destinata a penalizzarci anche l’anno prossimo. Se siamo fanalino di coda in Europa in termini di Pil, dobbiamo puntare su pochi e chiari interventi strategici che, auspichiamo, abbraccino una prospettiva temporale più ampia di quella delle recenti legislature.