Un anno di guerra in territorio ucraino – tragico per la popolazione del Paese – dimostra che un conflitto armato a scopo di conquista territoriale è tuttora possibile in Europa. Dimostra anche che le democrazie liberali sono disposte a sostenere concretamente, con aiuti finanziari, umanitari e militari, il governo di Kyiv contro l’invasione russa. Vi è stata certamente una “escalation” nell’uso della forza, ma da parte russa: gli attacchi mirati contro i civili e le infrastrutture ucraine. Dunque, ogni gradino che si è salito nel livello di sostegno militare per l’Ucraina è conseguenza diretta delle azioni russe. È evidente che un ritiro da tutti i territori ucraini internazionalmente riconosciuti non sarebbe seguito da una controffensiva di Kyiv oltre quei confini. In altre parole, l’obiettivo condiviso da Usa e Ue è una “vittoria difensiva” ucraina, per recuperare almeno parte delle terre sottratte nel 2014 e nel 2022.
Su questo sfondo va valutata ogni prospettiva di conclusione negoziata del conflitto. Come si insegna nelle scuole di guerra e nei corsi di tecnica diplomatica, le condizioni della pace sono influenzate dalle forze in campo nel conflitto bellico. Congelando le attuali linee del fronte, si negherebbe automaticamente all’Ucraina il ritorno alle sue frontiere statuali preesistenti. A fronte di ciò il governo di Zelensky fa le sue scelte, e dobbiamo prenderne atto per poi definire il nostro tipo di impegno. Le reiterate dichiarazioni ufficiali della Ue (che ha perfino offerto un percorso accelerato di adesione a Kyiv) e della Nato indicano che tutti i consessi occidentali considerano necessario che l’Ucraina abbia confini difendibili. Questo va oltre le garanzie che la Nato, o singoli Paesi, potranno offrire; l’imperativo è che l‘Ucraina sappia difendere se stessa, sebbene con forme di supporto esterno. In altri termini, l’obiettivo è impedire che si ripeta quanto accaduto nel 2014 e nel 2022, e in tale ottica va visto anche il tentativo in corso di ridurre le capacità belliche della Russia. Nessuno vuole abbattere il Cremlino, marciare su San Pietroburgo o umiliare il popolo russo, ma non possiamo consentire ad alcun leader, attuale o futuro, di comandare da Mosca una guerra di conquista contro un Paese vicino.
Come si insegna nelle scuole di guerra e nei corsi di tecnica diplomatica, le condizioni della pace sono influenzate dalle forze in campo nel conflitto bellico
Uno scenario probabile è che le forze ucraine cerchino di riprendere il controllo di quasi tutta la costa del Mar Nero, fino a colpire più facilmente la Crimea (il che non vuol dire riconquistarla); a quel punto la Crimea sarebbe costosa da difendere per la Russia, e forse possibile oggetto di un negoziato più ampio. Sono queste le linee immaginabili di una trattativa, dunque non a breve termine.
Quanto al “ricatto nucleare” che la leadership russa ha fatto balenare, non va certo preso alla leggera, ma collocato nel contesto di questo conflitto: Mosca sa di non poter prevalere in un confronto diretto con la Nato, che sarebbe inevitabile nel caso (strategicamente folle) di un attacco (anche convenzionale) contro obiettivi occidentali; d’altro canto, l’impiego di armi nucleari in Ucraina porrebbe un pericolo diretto allo stesso territorio russo per ovvie ragioni geografiche, oltre a produrre un’ulteriore escalation e perfino un cortocircuito nella catena di comando russa. In breve, la logica del ricatto nucleare contrasta con l’assoluta priorità che da sempre ispira l’attuale leadership russa: restare al potere.
Dal punto di vista occidentale, non si tratta certo di distruggere la Russia, ma di modificarne calcoli strategici e ambizioni. Putin ha deciso di invadere l’Ucraina e testare la forza di volontà degli alleati transatlantici. Vede ora in azione la nostra risposta – militare, umanitaria, ed economico-finanziaria con l’esclusione forzata della Russia dai maggiori canali degli scambi internazionali.
I motivi di questa scelta complessiva sono chiari, dopo dodici mesi di intense discussioni politiche nelle sedi istituzionali, dibattiti e cartine geografiche (a volte fantasiose e ideologicamente orientate) sui media: c’è un motivo di interesse perché l’Ucraina è ora una “prima linea” contro una Russia imperialista e colonialista; un motivo di principio perché ogni Paese ha diritto di chiedere l’adesione a un’alleanza o a un’area economica integrata; un motivo strategico perché non possiamo lasciare che la Russia (come qualunque altra potenza, nucleare o no) usi la forza per modificare i confini a piacimento. Quest’ultimo “messaggio” ha una valenza globale, e viene perfettamente compreso anche a Pechino.
Da una prospettiva europea, va ricordato un dato storico spesso rimosso: la Ue aveva siglato nel 2014 con il governo ucraino un “Accordo di Associazione”, cioè un’ampia intesa economica, che non entrò mai in vigore e fu subito seguito dalla prima invasione russa (Donbas e Crimea). Quell’accordo non aveva nulla a che fare con la NATO né con forniture di armamenti, e non a caso i movimenti popolari invisi a Mosca sventolarono allora a Kyiv le bandiere della Ue. Le ragioni ideali sono sempre importanti, ma c’era un calcolo economico alla base di quell’iniziativa europea, poi naufragata: come abbiamo ora “scoperto”, l’Ucraina è un Paese importante in campo industriale, agroalimentare, e per alcune risorse naturali.
In una prospettiva italiana, vi sono valutazioni strategiche ormai condivise da due governi, Draghi e Meloni – molto diversi per composizione e orientamento politico. Dunque, gli interessi nazionali spingono decisamente verso una partecipazione attiva agli sforzi della vasta coalizione pro-Ucraina, il che non rimuove certo gli elementi di preoccupazione per le ripercussioni economiche del conflitto e per i futuri rapporti con la Federazione Russa (perfino sotto una diversa leadership, quando il momento arriverà).
Vi sono anche opportunità per l’Italia, guardando oltre le emergenze: la diversificazione delle fonti energetiche (Paesi di origine/transito, e tipo di fonte) è essenziale alla sicurezza del Paese, ma va intesa soprattutto a livello Ue, perché nessun piano nazionale può garantire infrastrutture di distribuzione e stoccaggio ben più efficienti delle attuali. E si deve ragionare su scala europea se si inserisce la transizione energetica nel suo naturale contesto di una vera trasformazione del modello industriale e di consumo. L’Italia ha tutto l’interesse a evitare un ricorso massiccio a sovvenzioni nazionali per sostenere una transizione di tale portata, puntando a una vera politica industriale europea. Inoltre, la propensione italiana all’export, assieme alla dipendenza da materie prime importate, consiglia di favorire passi concreti per il rilancio di un’area transatlantica di libero scambio (versione aggiornata del progetto TTIP arenatosi nel 2016) per ampliare i mercati aperti e incentivare l’innovazione. Il potere negoziale europeo aumenterà solo aggregando le politiche energetiche, tecnologiche e fiscali; ma non ha senso avvitarsi in una sorta di competizione fratricida con Washington.
La propensione italiana all’export, assieme alla dipendenza da materie prime importate, consiglia di favorire passi concreti per il rilancio di un’area transatlantica di libero scambio
La guerra russo-ucraina è anche un brusco risveglio per le ambizioni della Ue di agire in autonomia: il nodo non è una vaga “autonomia strategica” (dagli Usa), ma una maggiore capacità di agire efficacemente in chiave regionale e globale, anzitutto rispetto a Paesi che aggrediscono alle fondamenta l’ordine internazionale basato su regole condivise. È questa la bussola che l’Italia deve adottare per orientarsi nel prossimo futuro.