La sfida del Recovery è da molti nel nostro Paese vissuta con ansia. Da un certo punto di vista è comprensibile: un fallimento potrebbe decretare la conferma degli stereotipi del nord Europa sulla nostra facilità a spendere tardi e male, chiudendo la porta a una riduzione del perenne rigore, così dannoso per la nostra economia, che ha accompagnato il nostro Paese dalla crisi del 2008 in poi, per lo più imposto dalle regole del Fiscal compact europeo, intrise di mancanza di fiducia.
È anche tuttavia una grande opportunità, al di là della dimensione delle risorse coinvolte, per mettere ordine nella “casa della pubblica amministrazione” italiana e rimuovere la causa prima dei tanti sprechi, facendo diventare la leva del Recovery la molla capace di lanciare la nostra economia nel XXI secolo.
Ma rimane una questione dirimente: a cosa vanno attribuiti questi sprechi italici della Pa? Su cosa dovrà lavorare il governo Draghi per far ripartire la capacità amministrativa del Paese, come richiede la stessa Ue, invitandoci a spendere somme importanti su di essa, certamente maggiori dei soli 200 euro a dipendente, 780 milioni di euro, proposti nel Recovery fund del presidente uscente Conte?
Tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti hanno pubblicato nel 2009 sull’American economic review quello che ad oggi è considerato il lavoro empirico più importante mai scritto sugli appalti pubblici. Lavoro che utilizzava una banca dati unica al mondo del ministero dell’Economia e delle Finanze sui prezzi di tutti gli appalti di beni e servizi (l’Italia spende col suo settore pubblico, a seconda degli anni, tra il 7 ed il 10% del prodotto interno lordo in acquisto di beni e servizi per la collettività). Dopo aver trovato una grande differenziazione tra prezzi negli acquisti pubblici dello stesso bene e della stessa qualità tra stazioni appaltanti, si cimentano nel misurare di quanto sarebbe calata la spesa complessiva se tutti avessero acquistato al prezzo di uno tra i migliori acquirenti. Ebbene lo studio mostra come gli sprechi ammontino a 30 miliardi di euro, quasi il 2% di Pil (stima per difetto degli sprechi totali, visto che a questi sprechi di prezzo nei beni e servizi dovete aggiungervi quelli nei lavori pubblici e anche gli sprechi di quantità, arrivando con tutta probabilità almeno al 3% del Pil, 50 miliardi)!
Se tutte le amministrazioni acquistassero lo stesso bene al prezzo migliore si eviterebbero sprechi per 30 miliardi di euro, quasi il 2% del Pil
Ma lo studio dei tre economisti va oltre. Da dove vengono questi sprechi immensi? Dalla corruzione o dall’incompetenza? Ebbene essi dimostrano rigorosamente come l’83% di essi sia dovuto a … incompetenza e solo il 17% a corruzione. Un risultato di grande valenza strategica perché indica una strada chiarissima per ottenere risorse dalla lotta agli sprechi. Un risultato che ci deve rendere felici, perché l’incompetenza è in teoria più facile da combattere della corruzione. Certo, è vero che incompetenza e corruzione si sostengono a vicenda. Lo diceva anche Cicerone, pubblico ministero nel processo a Verre, corrotto governatore della Sicilia: «In questi abusi sfrenati di uomini scellerati, nella lamentela quotidiana del popolo romano, nell’ignominia del sistema giudiziario, nel discredito dell’intera classe senatoria, ritengo che questo sia l’unico rimedio a così tanti mali: uomini capaci e onesti abbraccino la causa dello Stato e delle leggi». Competenza e onestà, inscindibili, tanto da far parlare a Cicerone di un “unico rimedio”!
Ma è anche vero che battersi per riconoscere e premiare le competenze nel settore pubblico fa sì che non esista più vantaggio sostanziale per atti corrotti. Ecco perché si impone a un Governo, che voglia ridare slancio all’Italia, di battersi per una rivoluzione organizzativa delle stazioni appaltanti, centrata sulla creazione di una carriera professionale dell’acquirente pubblico, come per un magistrato o un diplomatico, ben remunerata e dove vengano formati, con competenze interdisciplinari, le future classi dirigenti degli acquisti pubblici. Nessun meccanismo di rotazione, sempre basato sulla mancanza di fiducia, che altro non fa che generare mancanza di esperienza, ma piuttosto meccanismi di verifica della correttezza dell’operato nell’arco di una vita lavorativa dedicata esclusivamente a comprare, bene, per cittadini e imprese. Nel Regno Unito questo dibattito è stato avviato più di 20 anni fa e i risultati si vedono, a seguito delle riforme effettuate.
Insomma eccola, una riforma essenziale, questa sì, mai nemmeno avviata nel nostro Paese, che si impone: muoversi rapidamente verso una certificazione obbligatoria, per valutarne la competenza, delle stazioni appaltanti e del loro personale, che – a fronte del raggiungimento di risultati oggettivamente misurabili per il tramite di appropriate banche dati – vede il proprio operato centrato attorno a giuste remunerazioni, premi, incoraggiamenti, progressioni di carriera, con concorsi riservati a tecnici di appalti e di project management. Un meccanismo che presuppone fiducia, anche se soggetta a controlli che scoraggino comportamenti impropri o frutto di incompetenza, prim’ancora che regole pervasive basate sulla sfiducia a priori.
Dove trovare le risorse per queste stazioni appaltanti più professionalizzate? Al di là di quelle rintracciabili nel Recovery, basterà dedicare un 10% di quei 50 miliardi recuperati dalla caccia agli sprechi per il tramite … delle stesse stazioni appaltanti competenti.
Sia chiaro, quel 17% è immenso e deprecabile. Ma non è l’83% dovuto ad incompetenza. Un altro dato che dimostra come la sovrastima del fenomeno della corruzione possa essere marcata in assenza di dati. Come sono inevitabilmente marcati e grossolani gli errori susseguenti a questa sovrastima. Perché se uno spreco di incompetenza è attribuito alla corruzione non solo si aggrava impropriamente la percezione dei cittadini, ma si contribuisce a risolvere la questione, piuttosto che con una battaglia sulle competenze basata sullo “spendiamo meglio”, con una battaglia sulla corruzione basata sullo “spendiamo di meno”, capace di uccidere l’economia italiana; come è stato nell’ultimo decennio.