Gli anni tra il 2020 e il 2022 saranno probabilmente ricordati come un periodo di cesura a livello mondiale, un vero e proprio spartiacque tra ciò che è stato ed una “nuova normalità”. Tre indizi inducono a formulare questa previsione, individuando nei prossimi mesi del 2021 proprio il crinale che andrà scavallato: tecnologie, amministrazione Usa, G20 e multilateralismo costituiscono i vertici di questo ideale triangolo del cambiamento.
Andrea Gumina, presidente dell’associazione Amerigo e consigliere del ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale
Un nuovo paradigma tecnologico
Il primo dei tre elementi è rappresentato dal profondo impatto che il cambio di paradigma tecnologico nel quale siamo immersi da qualche anno, più o meno consapevolmente, sta generando: un’onda lunga la cui ampiezza e intensità è stata amplificata dalla crisi pandemica causata dal Covid-19.
La Nuova rivoluzione produttiva (Npr)[1] è la rappresentazione plastica del contemporaneo manifestarsi di un insieme di tecnologie abilitanti in grado di provocare un impatto rilevante sulla distribuzione dei beni e servizi nel mondo, con conseguenze di lungo periodo su produttività, formazione, distribuzione del reddito, benessere, ambiente.
Gli ingredienti di questa rivoluzione sono andati via via maturando e rinforzandosi l’un con l’altro: l’innovazione nella gestione di grandi quantità di dati; l’evoluzione del machine learning, trasformato da una crescita esponenziale della potenza di calcolo in algoritmi di intelligenza artificiale sempre più sofisticati; l’uscita delle blockchain dalla nicchia delle criptovalute e il loro ingresso nel mondo della produzione reale; la crescita e la diffusione esponenziale della robotica, unita ad uno strabiliante cambio di passo nella gestione di compiti non elementari e ad un netto miglioramento delle performance dei sistemi di accumulazione energetica; l’incedere e la diffusione di una connettività praticamente ubiqua, precondizione per la connessione di persone ma soprattutto per la piena attuazione dell’internet delle cose; gli avanzamenti nel settore della biologia sintetica, dei nuovi materiali, delle nanotecnologie, da cui potrebbe ragionevolmente derivare l’ingresso della bioingegneria nella vita di ogni giorno.
Questi trend promettono di contribuire in maniera più che determinante all’incremento della produttività e al superamento, nel prossimo decennio, del paradosso di Solow[2]. Il virus, e i relativi impatti sulla sfera socio-economica e sulla salute, sono stati, in tal senso, un tremendo acceleratore: il 2020 è stato caratterizzato da un flusso di nuove scoperte con un enorme potenziale trasformativo (dai vaccini basati sull’Rna, ai nuovi algoritmi di AI, alla mobilità autonoma e alle tecnologie verdi), ma anche da un vertiginoso aumento delle spese di R&S di natura pubblica e privata[3], oltre che da una potente accelerazione nel tasso di adozione delle innovazioni da parte del grande pubblico (si pensi allo smart working). La possibilità che alcune di queste tecnologie divengano in breve delle Gpt (General purpose technologies, come l’elettricità a inizio Novecento) crescerà sensibilmente nei prossimi mesi, e con essa la probabilità che il loro impatto complessivo sulla nostra società diventi strutturale.
I due luoghi di questa rivoluzione tecnologica, che porta con sé l’ottimismo per le sue immense potenzialità e il timore per un possibile rafforzamento degli squilibri che potrebbero associarvisi, sono gli Stati Uniti e la Cina.
L’ amministrazione Biden
Gli Stati Uniti rappresentano il secondo, possibile elemento di discontinuità in questo 2021, per via del cambio di amministrazione e delle conseguenze che esso ha generato e genererà in molti campi. Le prime settimane della presidenza Biden affidano al mondo un deciso segnale in termini di stimoli economici (quasi 2 trilioni di dollari) per assicurare la ripartenza delle attività, contrastare la dilagante povertà e (ri)costruire le infrastrutture materiali e immateriali per assicurare la produttività del futuro; l’adozione di obiettivi sfidanti sul versante del contrasto al Covid-19 (tutti gli americani vaccinati entro luglio); il ritorno alla dottrina del multilateralismo, pur in uno scenario profondamente cambiato rispetto al passato, con un ridisegno sia della geografia delle alleanze che del peso degli alleati.
L’ampiezza e l’efficacia con cui questo programma sarà attuato, influenzerà anche il modo attraverso cui le previsioni sugli scenari macroeconomici troveranno concreta rispondenza nei mesi a venire. Raramente, a leggere le previsioni di Imf, Oecd, Wto si è palesato un tale gap tra scenari ottimistici e pessimistici relativi a crescita del reddito, andamento dell’occupazione e prospettive connesse al volume degli scambi di beni e servizi a livello internazionale.
Pesa indiscutibilmente, su questa incertezza, proprio la consapevolezza dei ritardi e della minore efficacia che politiche non coordinate da parte della comunità internazionale potrebbero generare.
L’Italia tra G20 e multilateralismo
Il G20 e un nuovo, auspicabile multilateralismo, più maturo, concreto e consapevole, rappresentano dunque il terzo tassello di questo anno-cerniera. L’Italia si appresta ad entrare nel vivo del suo anno di presidenza, in un contesto caratterizzato dalle tensioni interne, dal concretizzarsi delle conseguenze relative all’uscita del Regno Unito – a sua volta impegnato nella presidenza del G7 – dall’Unione europea, dalla sfida della gestione della Recovery and resilience facility a livello comunitario. È in questo scenario che il nostro Paese ha messo a punto un’agenda basata su tre priorità (persone, pianeta, prosperità), all’interno della quale emergono prepotentemente i temi dell’innovazione come opportunità per tutti, della riduzione delle disparità, e dell’impulso alla crescita – anche attraverso un rafforzato impegno a favore del sistema degli scambi internazionali.
Un’Italia tanto convintamente atlantista quanto propugnatrice di un approccio multilaterale alle decisioni, può giocare un rilevante ruolo da pivot nella costruzione di un nuovo rapporto tra l’Europa e gli Stati Uniti; ciò, ancor di più, alla vigilia della fine di una leadership – quella di Angela Merkel – che ha plasmato i rapporti transatlantici negli ultimi vent’anni.
Il profondo mutamento in cui siamo immersi, insomma, può contribuire a rimescolare le carte. Il nostro Paese può non solo approfittarne per costruire un posizionamento nuovo, e più centrale, nel côté internazionale; può altresì beneficiare di un approccio più metodico e strutturato e di una possibile, rinnovata centralità per disegnare una nuova stagione di crescita. Quest’ultima non potrà prescindere, inter alia, da una profonda trasformazione del suo sistema produttivo, con una vera ibridazione del tessuto tradizionale delle imprese con le più avanzate tecnologie; e da una larghissima valorizzazione di quel patrimonio sotto-utilizzato, anche immobiliare, di cui l’Italia è piena. Servono intelligenze e competenze per attirare capitali like-minded e non predatori. Serve un’azione regolatrice e di sostegno da parte dello Stato ed una nuova forma di collaborazione tra pubblico e privato, basata sull’efficacia e la tempestività delle scelte.
Il perimetro di collaborazione transatlantica può essere adeguato a sperimentare e trasferire nella sfera dell’economia reale nuovi e più adeguati modelli di intervento. Anche per questo motivo, Amerigo e Federmanager hanno siglato un accordo che li vedrà impegnati, nel corso del prossimo anno, in una serie di azioni di awareness e di attività operative: esse dovranno contribuire a migliorare la comprensione delle opportunità derivanti da una più stretta interazione tra le due sponde dell’Oceano in materia di investimenti, adeguamento dei modelli di business, rafforzamento del capitale umano. Il Transatlantic investors club, che stiamo pensando insieme, si candida dunque a divenire uno dei luoghi di elezione nei quali dare concretezza a questo cambio di paradigma epocale.
[1] Npr è un termine coniato dall’Oecd nel 2017, durante l’anno di presidenza italiana del G7. Clicca qui per maggior informazioni
[2] Tra le moltissime pagine dedicate al cosiddetto paradosso di Solow, cioè all’assenza di consequenzialità tra investimenti in tecnologie ed aumento di produttività (e salari), a questo link si segnala una delle più divulgative.
[3] Ad esempio, nel terzo e nel quarto trimestre del 2020, negli Stati Uniti le imprese private hanno investito in pc, software e ricerca e sviluppo più che in immobili commerciali e attrezzature industriali, per la prima volta da dieci anni a questa parte. Fonte economist.com