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Sorpasso a Oriente

L’India si appresta a sottrarre alla Cina il titolo di nazione più popolosa al mondo. Dietro il fenomeno demografico si profilano nuovi equilibri politici ed economici

Nel 2005 Federico Rampini creava il neologismo “Cindia” per sintetizzare la crescente sinergia tra Cina e India nello scenario internazionale: la locomotiva industriale cinese conquistava i mercati occidentali con il “made in China”; il subcontinente, invece, ambiva a ottenere un predominio in settori ad alto contenuto intellettuale, dal software informatico alla biogenetica. Oggi la Cina è ancora la seconda economia mondiale, l’India solo la sesta. Ma tra altri vent’anni? Tra altri vent’anni potremmo dover parlare di “Indcina”. Certo, il 2043 è lontano e il condizionale è d’obbligo. Ma l’andamento demografico dei due Paesi suggerisce un possibile avvicendamento ai vertici della classifica asiatica.

Partiamo dalla cronaca: solo pochi giorni fa la Cina, ha annunciato il primo calo della popolazione dal 1961. Nel 2022 i nati sono stati appena 9,56 milioni, un 9,98% in meno rispetto ai 10,62 milioni del 2021. Il tasso di natalità nazionale è sceso al minimo storico di 6,77 nascite ogni mille persone, il valore più basso dal 1949, anno in cui il governo ha cominciato a divulgare i dati. Secondo le Nazioni Unite, la popolazione cinese – oggi di 1,4118 miliardi – scivolerà a quota 1,313 miliardi entro il 2050 per assestarsi sotto gli 800 milioni entro il 2100. I cittadini in età lavorativa, di età compresa tra 15 e 64 anni, alla fine del secolo saranno la metà rispetto agli 882,22 milioni dello scorso anno.

La Cina ha annunciato il primo calo della popolazione dal 1961. Nel 2022 i nati sono stati appena 9,56 milioni, il 10% in meno rispetto all’anno prima

La speranza è ancora che gli incentivi monetari, introdotti di recente in alcune zone della Cina, infondano coraggio tra giovani cinesi, al momento troppo preoccupati dal costo della vita per pensare di mettere su famiglia. Si tratta di un trend che interessa un po’ tutta l’Asia Orientale – soprattutto Giappone, Corea del Sud e Taiwan – ma che in Cina e nel resto del mondo potrebbe avere implicazioni economiche dirompenti, considerato il peso del Paese nella filiera produttiva globale.

Mentre non tutti concordano nel giudicare negativamente il calo demografico – ad esempio in termini di impatto ambientale -, le ricadute per la produzione industriale si preannunciano ingenti. Secondo le stime del governo, nel 2025 il settore manifatturiero sperimenterà una carenza di circa 30 milioni di lavoratori. Passato è il tempo in cui il gigante asiatico poteva pompare il Pil contando prevalentemente sul suo dividendo demografico, la crescita economica associata all’aumento della quota di popolazione in età lavorativa. La Repubblica popolare non può più puntare sui grandi numeri.

Cosa farà ora Pechino? A differenza di altri Paesi, oltre la Grande Muraglia, le restrittive politiche migratorie impediscono la possibilità di importare manodopera e talenti per sopperire alle mancanze interne. Il provvedimento più a portata di mano consiste nel posticipare l’età pensionabile, che in Cina attualmente è piuttosto bassa: 60 anni per gli uomini e 55 per le donne (50 per le tute blu). A ottobre, durante il XX Congresso del Partito, il presidente Xi Jinping ha anticipato che la riforma del sistema avverrà “gradualmente” entro il 2025. Ma, considerato che molte persone continuano – già ora – a lavorare anche dopo il pensionamento, si stima saranno solo 13 milioni le donne a beneficiare del prolungamento.

Opzione più incisiva – ma di lungo periodo – sarebbe aumentare la produttività, da una parte migliorando l’istruzione, sia nelle città che nelle campagne – nel 2020, il 43,1% della forza lavoro cinese aveva un’istruzione superiore o universitaria rispetto a una media nazionale del 19,4% nel 2001. Dall’altra facilitando lo spostamento della popolazione tra aree rurali e urbane attraverso una riforma dell’obsoleto sistema di registrazione familiare (hukou).

Ma la vera chiave di volta resta l’automazione, una soluzione occhieggiata da Pechino anche in risposta alla declinante popolarità del lavoro in fabbrica tra le nuove generazioni. Secondo la China robot industry alliance, dal 2013 la Cina detiene il primato per numero totale di robot fabbricati e venduti. Lo scorso mese, il Ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione e altre 17 agenzie governative hanno pubblicato un piano per accelerare l’impiego della robotica in 10 settori, dall’agricoltura al manifatturiero passando per i servizi logistici e l’istruzione fino al comparto sanitario. Se però questo basterà a rimpiazzare i lavoratori in carne e ossa è tutto da vedere. E il tempo stringe.

C’è infatti già chi è pronto a raccogliere l’eredità del gigante asiatico; paesi limitrofi, come il Vietnam e proprio l’India, che – stando all’;Onu – quest’anno si appresta a sottrarre alla Cina il titolo di nazione più popolosa del mondo. Manovre in tal senso sono già evidenti. Secondo quanto affermato recentemente dalle autorità di Nuova Delhi, Apple ha intenzione di spostare il 20% della produzione nel subcontinente rispetto all’attuale 5-7%.

La Cina ha ancora qualche carta da giocare. Innanzitutto, ha una classe media che conterà 850 milioni di persone nel 2035. Le multinazionali stanno quindi procedendo lungo un doppio binario, consolidando nella Repubblica popolare la produzione destinata ai consumatori cinesi, e delocalizzando nel vicinato asiatico (dove i prezzi sono più accessibili) le filiere destinate ai mercati occidentali. Anche tenendo conto delle restrizioni americane sull’esportazione verso la Cina di tecnologia avanzata.

Insomma, nulla è scritto nella pietra. D’altronde, anche per l’India è cominciato il conto alla rovescia. Mentre infatti si prevede che la popolazione continuerà ad aumentare per altri 40 anni, l’espansione avverrà a un ritmo più lento. Migliori condizioni di vita e di istruzione femminile, in 17 su 22 stati e territori amministrati a livello federale, hanno spinto i tassi di fertilità sotto il livello di sostituzione di due nascite per donna. Non solo. Per poter sfruttare il dividendo demografico, l’India dovrà riuscire a generare sufficienti opportunità occupazionali. Secondo il Center for monitoring Indian economy (Cmie), oggi solo il 40% della popolazione indiana in età lavorativa ha un impiego o vorrebbe averlo. Soglia che nel caso delle donne precipita ad appena il 10%, contro il 69% della Cina.

L’era di “Indcina” è ancora lontana, e chissà se mai arriverà.

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