Le multinazionali hanno reagito meglio delle piccole e medie imprese. Quelle che operano in settori tech, ad alta digitalizzazione, pure. Se avvezze a crisis management ed emergenze, si sono mostrate più preparate. Prendiamo un’azienda così, un’azienda “a cinque stelle”, e verifichiamo come la pandemia (con tutto ciò che porta con sé) ha rivoluzionato il lavoro. Andiamo a chiedere loro se l’arrivo dello smart working di massa ha comunque rivoluzionato il sistema. Se l’organizzazione è mutata. Se l’impatto è stato controllato e gestito.
Prendiamo Babcock, i suoi 40 mila dipendenti nel mondo, le 83 mila missioni all’anno per salvare vite umane, le 120 mila ore di volo. Sono quelli dell’elisoccorso, del search and rescue, dell’antincendio, della sorveglianza di confini e territori. Durante la pandemia, hanno trasportato pazienti Covid-19 da e verso gli ospedali, hanno collaborato con i medici e gli infermieri del 118, hanno garantito approvvigionamento e strumenti.
Roberta Occorso, Hr director della divisione Aviation Europe di Babcock
L’Hr director della divisione Aviation Europe si chiama Roberta Occorso. Prima era di stanza a Londra, ora ci risponde dalla sua casa a Torino. «La mia routine era viaggiare tutte le settimane, tra i vari Paesi europei. Ora non mi muovo da qui». Tutto il management si vede soltanto online. «Troppo radicale, troppo improvvisa», la modifica dei tempi di vita e lavoro. «Lo stress non dipende solo dalla quantità, ma anche dalla qualità del lavoro», sottolinea. Lei che gestisce le persone parla esplicitamente di “mental health”. «Dobbiamo riconoscere l’impatto che questo smart working e la nuova routine hanno avuto sul singolo individuo. Qualsiasi categorizzazione non è possibile. Questa condizione insegna che ciascuno ha la propria specificità, il proprio equilibrio, il proprio stile di vita. Ciascuno è diverso e noi in azienda dobbiamo tenere conto di questa diversità».
Abbiamo attivato programmi di mental health perché lo stress non dipende solo dalla quantità, ma anche dalla qualità del lavoro
Poi Babcock, che oltre all’aviazione ha anche altre tre divisioni (nuclear, marina e land), vive il paradosso di essere un gruppo molto strutturato che si trova a collaborare con realtà di business molto piccole. Ci sono almeno due aspetti che si sono rivelati vincenti nell’affrontare la gestione di questo periodo: «il primo è certamente la forza economica e organizzativa, la possibilità di dotarci subito di tecnologia e dispositivi medici, come le mascherine e ogni dispositivo di protezione», racconta Occorso. «Il secondo elemento è la cultura della sicurezza. Questo è il nostro campo, adottiamo protocolli di safety per le situazioni più straordinarie, per cui in un certo senso ci siamo trovati pronti di fronte alla pandemia. Avevamo procedure, controlli e cultura per reagire all’imprevedibile. Il monitoraggio della sicurezza è nel nostro Dna».
L’organizzazione agile, secondo Occorso, si basa su un pilastro irrinunciabile: il miglioramento continuo e l’apprendimento. Si fanno simulazioni reali, si fa training a tutti i livelli. «Impariamo dagli errori, incentiviamo ogni dipendente a segnalare un alert, a condividere ciò che non ha funzionato». Si chiama “just culture”, spiega, identificando quell’approccio di tradizione anglosassone che non stigmatizza chi sbaglia. «Si cresce attraverso l’analisi dell’errore e si cambia a seconda di ciò che è accaduto». «L’Hr deve adottare un nuovo paradigma, a maggior ragione in un contesto così complesso», afferma la manager. «Il nostro compito è certamente anche di tipo amministrativo e sindacale, ma ci richiede di assicurare che le persone siano prese in cura nella loro totalità, in ogni aspetto. E con il termine persone non intendiamo soltanto i nostri dipendenti, ma anche i familiari, i nostri clienti e intere comunità».
Crescere attraverso l’analisi e la condivisione dell’errore. Questo è l’approccio della “just culture”
Quando si verifica un incidente – che sia un incendio, un claim legale, persino un attacco terroristico – l’organizzazione normale viene sostituita da un Emergency response team (Epr), composto da persone con competenze specifiche che intervengono fino alla risoluzione dell’emergenza. Eccola, l’agilità dell’organizzazione ed è tutt’altro che improvvisata. Eppure qualche difficoltà la pandemia l’ha causata anche qui. «Tutti hanno attivato il lavoro da casa, ma ogni paese ha diverse regolamentazioni e soprattutto diverse culture. In Babcock lavoriamo con team internazionali e la gestione delle persone in remoto implica altre competenze», rivela Occorso. «Ci sono fragilità, condizioni familiari, abitudini di vita molto lontane tra loro. Un dipendente svedese affronta un contesto imparagonabile a quello di uno spagnolo e devono comunque lavorare insieme. Ecco perché – afferma – l’investimento maggiore deve andare sui temi della diversity, intesa come attenzione ai bisogni emergenti. Pur proteggendo la privacy di ognuno, questa è una grande barriera». Numeri verdi, comunicazione, supporto psicologico. Tutte cose che sono state attivate, «ma ancora tanto si deve fare», ammette Occorso. «Bisogna poter condividere le esperienze. Io per prima ho richiesto un coach all’azienda perché il mio cambio di routine è stato troppo repentino. Ho attivato un percorso di wellness. Va detto. Va fatto. Non deve rimanere un tabù».