QATAR / 2 – Manager nel Far Middle East

Tutto scorre. Anzi, corre. I ritmi di lavoro a Doha sono frenetici, nonostante la crisi. L’embargo non fa paura. Le commesse sono confermate. I progetti di investimento anche. I grattacieli, gli stadi, la nuova metropolitana, sono un cantiere aperto. I servizi funzionano, i viveri sono assicurati. Quell’immagine da “far west”, con gli scaffali vuoti dopo l’assalto ai supermercati, è un lontano ricordo.

«Questo è un Paese piccolo che sta crescendo e ha bisogno di infrastrutture. Chi investe qui non potrà che guadagnarci», ci dice Pietro Paolo Rampino, che nell’area del Golfo ha innovato il proprio profilo di dottore commercialista con la società Oesse Consulting fornendo consulenza strategica per le imprese e creando dal nulla un incubatore per le startup italiane in Medio Oriente, di cui è il Ceo. Praticamente, in termini di sviluppo «ci sono 10 anni di differenza tra Doha e Dubai in appena 45 minuti di volo». Un volo che però, almeno per ora, non si può fare, con gli spazi aerei interdetti, oltre alle frontiere di terra chiuse.

Il Paese, si sa, possiede capitali ingenti. Dopo il Bahrein, vanta il reddito pro capite più alto al mondo. Su 2.7 milioni di abitanti, concentrati nella capitale, circa 1 milione e mezzo sono “expat”, stranieri residenti per motivi prevalentemente professionali. L’80% è manodopera, il resto colletti bianchi.

Si contano circa 1.500 italiani, moltissimi nel settore costruzioni e indotto di servizi. Come Claudio Bonomi Savignon, ad esempio, che lavora per Arup, la multinazionale di progettazione con base a Londra che cura anche la gestione degli appalti di terzi con il governo qatariota. Per lui, che a Doha vive da 5 anni con la  famiglia, «è presto per sentire gli effetti del blocco. Non siamo ancora tornati ai livelli pre-crisi petrolifera, ma la crescita è spaventosa». La cosa più importante, ammette, è che «forniture e materiali continuino ad arrivare».

L’Emirato sta lavorando per aprire nuovi collegamenti via mare e via cielo, e non solo con l’alleato iraniano. «Non si va più a Dubai per il fine settimana, ma i circuiti di business sono assolutamente autonomi. Oggi il Qatar deve risolvere un problema di riorganizzazione delle rotte e riorientare l’approvvigionamento ed è ciò che sta facendo», spiega Lucio Rispo,  investiment project manager per la Qatar Foundation Endowment.

Se tutti gli osservatori concordano sul fatto che l’emergenza sia rientrata, la vera incognita è il fattore tempo. Un prolungamento del blocco potrebbe generare effetti sgradevoli, soprattutto in vista dell’appuntamento dei Mondiali di calcio 2022.

Terzo produttore al mondo di gas naturale e primo esportatore, l’Emirato è infatti dipendente per il 40% dall’Arabia Saudita per le derrate alimentari. La valuta nazionale ha perso il 7% del suo valore il 5 giugno, giorno della rottura diplomatica, per poi riallinearsi. Secondo fonti bancarie citate dall’emittente al Arabiya, alcuni istituti di credito dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein avrebbero rinviato lettere di credito e altri accordi con le banche del Qatar dopo la chiusura dei rapporti diplomatici. Inoltre, dopo S&P, anche Fitch ha avviato una procedura di possibile declassamento del rating qatariota.

Quanto durerà lo stato di isolamento è la questione che preoccupa maggiormente manager, imprenditori e governi. Il Paese infatti ha riserve finanziarie così consistenti da poter proseguire per mesi, ma non è detto che il mercato internazionale si mostri clemente. Il governo ha dichiarato di recente di avere centinaia di miliardi di riserve di valuta pregiata. Ma al di là delle dimostrazioni di forza, a livello diplomatico si lavora intensamente per scongelare la crisi.

«Gli impianti sportivi che si stanno costruendo non funzioneranno se tutto il sistema non va di pari passo», considera Bonomi Savignon, che dal suo osservatorio può seguire lo stato di avanzamento di molti cantieri. «Le strade, la metro, i treni metropolitani devono correre. È tutto connesso, quindi se ci fossero ritardi su un progetto, ne risentirebbe tutti gli altri. Ma finora – sottolinea – abbiamo avuto rassicurazioni da tutte le autorità e garanzie dalla FIFA».

I progetti che si avviano nel Paese, poi, non rispettano esattamente gli standard europei. La volatilità delle garanzie è un problema reale, anche se controbilanciata dalle opportunità che possono rivelarsi molto consistenti, in particolare per l’Italia. «Non vedo rischio sugli investimenti diretti Italia-Qatar, anzi questa incertezza potrebbe andare a vantaggio del nostro Paese», rivela Pietro Paolo Rampino.

Muovendosi nel Golfo sin dal 2003, anche in rappresentanza della Joint Italian Arab Chamber, descrive così la strategia da adottare: «Gli imprenditori italiani devono superare l’individualismo che li contraddistingue. Questi mercati sono troppo competitivi per farcela da soli».

Rampino consiglia un approccio a sistema, in supply chain, con la grande azienda che, vinto l’appalto, porta a traino la medio-piccola. La commessa se l’aggiudica chi sa portare sul mercato un prodotto “all inclusive”, chi sa presentare l’idea e realizzarla “chiavi mano” a livelli di eccellenza.

Ospedali, ferrovie, digitale e elettronico, nucleare civile, oil&gas, aerospazio, tecnologia. Si compra molto in settori trainanti. Il Qatar non vale tanto in termini di potenziale consumo interno, ma è una portaerei strepitosa per raggiungere altre destinazioni.

«Se un’azienda vuole crescere, deve internazionalizzarsi. Se vuole investire qui, deve aprire una branch sul posto perché le relazioni personali contano moltissimo e il business va coltivato. È un modo molto più impegnativo di fare impresa – ammette Rampino -, ma si chiudono affari nei settori più diversi».

Se ci sono qualità che i qatarioti riconoscono al management italiano, si chiamano capacità di networking e affidabilità personale. Lucio Rispo, da manager, non ha dubbi: «C’è un eccezionale rispetto per la storia e le competenze degli italiani che non riusciamo a valorizzare abbastanza. I qatarioti ci vogliono più bene di quanto non ce ne vogliamo noi. Ho visto tantissime Pmi che lavorano senza soluzione di continuità per anni in questo Paese grazie al semplice fatto che, più di altri, sanno mantenere la parola data. E questo è molto apprezzato».

*giornalista, vice direttore Progetto Manager