Quello che, fino a qualche tempo fa, etichettandolo con il termine “telelavoro”, consideravamo modalità lavorative svolte dalla propria abitazione, viene oggi sempre più definito con il termine di “innovation work” formula, di recente, lanciata da Tesav, società di consulenza operante nel campo dell’innovazione dei processi aziendali.
Non si tratta più di circoscrivere il nuovo modo di lavorare al modello che vorrebbe vedere relegato chi presta la propria attività professionale esclusivamente dalla propria dimora ma, al contrario, per innovation work deve intendersi il lavoro svolto da qualsiasi luogo e in qualsiasi orario della giornata.
Le tecnologie abilitanti e le reti di telecomunicazioni, pur con qualche carenza, ci consentono di svolgere, da remoto, una cospicua attività lavorativa e la prova di ciò sta nel constatare che, nonostante la terribile situazione di pandemia che sta attanagliando il mondo intero, il sistema economico ha retto facendo registrare livelli di crescita non solo nel settore dei servizi.
Nel nostro Paese scontiamo però un ritardo nella formazione e nell’adozione di soluzioni e sistemi digitali e questo ritardo ha determinato una resistenza, spesso di tipo culturale, nell’avvio e nel consolidamento di modalità di lavoro innovative.
Consideriamo che solo nel 2015, con i provvedimenti legislativi della legge Madia e successivamente con la più organica legge 81 del marzo 2017, la materia del cosiddetto “lavoro agile” ha trovato un quadro regolatorio che ha consentito, soprattutto alla Pubblica amministrazione, l’attivazione di una serie di iniziative che hanno permesso di qualificare il lavoro dipendente non più solo in base alla presenza ma in ragione dei risultati e degli obiettivi raggiunti.
Dobbiamo tuttavia dire che se si è passati da valori del 2-3% di diffusione di modalità di lavoro non tradizionale, registrati ante pandemia, a stime del 30% nella Pubblica amministrazione e di oltre l’80% nelle aziende private, tali dati sono certamente la conseguenza del Covid-19 e dei conseguenti Dpcm.
La diffusione del lavoro agile era pari al 2-3% nel periodo ante pandemia. Ora siamo al 30% nella Pa e a oltre 80% nelle aziende private
Ora la questione è quella di valutare le problematiche e i benefici del nuovo modo di lavorare nell’attuale fase di emergenza ma anche quando la situazione generale ritornerà ad una “nuova normalità”.
Pur di fronte a una generalizzata riduzione dei costi di produzione e di un incremento dei livelli di produttività, stimati nell’ordine del 20-30%, conseguenti all’adozione cogente di modalità di lavoro da remoto, non possiamo non registrare che stiamo scontando gli effetti negativi della mancata socializzazione determinati da una forzata alterazione della quotidianità dei rapporti che, al contrario, sarebbero stati favoriti dalla frequentazione dei luoghi di lavoro tradizionali.
Le soluzioni di co-working potranno offrire un giusto compromesso tra il lavoro svolto nelle sedi abituali e quello erogato dalla residenza del lavoratore. Una modalità fortemente diffusa in altri paesi europei, che consente di ottenere un buon livello di socializzazione e al tempo stesso di ridurre gli aspetti negativi provocati da spostamenti, spesso impegnativi, per raggiungere distanti sedi di lavoro ed evitare o ridurre l’utilizzo della propria abitazione non sempre adeguata alle esigenze che un lavoro a distanza richiede.
Ma veniamo al tema della formazione e delle competenze, presupposti per una qualificata gestione di modalità di lavoro innovative.
Fondamentale, al riguardo, sarà il contributo di una guida manageriale non improvvisata. È soprattutto dai livelli dirigenziali che ci aspettiamo una forte iniziativa per far sì che il “nuovo lavoro” divenga lavoro di risultato e non di mera presenza.
È dal top management che deve venire una spinta nella direzione di una radicale innovazione dei processi produttivi e nella formazione e acquisizione di competenze. Cruciale pertanto sarà il ruolo del dirigente pubblico e privato per il consolidamento dei nuovi modelli di lavoro.
Dalle recenti indagini condotte da vari istituti e società di ricerca emerge che la percentuale di manager favorevoli all’adozione di modalità di innovation work è sensibilmente inferiore a quella rilevata tra la generalità dei lavoratori.
È emerso che la percentuale di manager favorevoli all’innovation work è sensibilmente inferiore a quella della generalità dei lavoratori
Questo divario ci deve indurre alla considerazione che controllare la qualità del lavoro e la relativa produttività richiede un impegno e una competenza decisamente più elevata rispetto a quella necessaria per “controllare” la presenza e i programmi di lavoro di un proprio collaboratore.
Al manager, soprattutto a quello di nuova generazione, si richiedono iniziative in grado di trasformare “l’impresa”, sia pubblica che privata attraverso azioni che si traducano in capacità di dialogo e interazione con i propri collaboratori, doti di apertura verso le spinte innovative che provengono dalle nuove generazioni, assunzione di un ruolo che lo ponga come “primus inter pares”.
Federmanager, contribuisce alla formazione continua di figure dirigenziali mettendo al centro del proprio mandato i principi dell’etica professionale e dell’innalzamento dei livelli di competenza.
Il bagaglio di esperienze dei nostri manager non sarà , da solo, sufficiente per far sì che si possa far cambiare pelle al variegato mondo delle nostre Pmi e della nostra Pubblica amministrazione e tuttavia una rilevante spinta in questa direzione è stata promossa , dalla nostra organizzazione, attraverso la creazione di figure professionali come quelle del temporary manager e dell’innovation manager, profili in grado di aggiungere alla creatività e fantasia dell’“italico imprenditore”, competenze, conoscenze, esperienze testate in anni di attività svolte in qualificati contesti industriali di portata internazionale.
Avanti allora evitando tentazioni di “ritorno al passato”. Questa dovrà essere una delle missioni dei nuovi leader.