L’obiettivo è chiaro: costruire quella società della conoscenza in grado di trasformare le tecnologie digitali in progresso, ovvero in nuove e migliori modalità di vivere, produrre e governare. Un’evoluzione che passa necessariamente attraverso la dotazione degli strumenti conoscitivi necessari a tutta la popolazione, affinché possa tradursi in innovazione diffusa e sviluppo sostenibile. È un passo fondamentale per recuperare competitività.
È questo lo scopo ultimo che si propone la Commissione europea con il recente lancio della Union of skills, Unione delle competenze, un’ambiziosa strategia di sviluppo del capitale umano, che segna una svolta nelle politiche Ue per il suo approccio sistemico. Integrando per la prima volta le politiche di istruzione, formazione, apprendimento continuo e lavoro, concretizza quanto indicato dal Piano Letta e dal Piano Draghi, pubblicati rispettivamente ad aprile e settembre 2024.
Del primo, raccoglie il suggerimento di istituire una quinta libertà, dopo il libero movimento di persone, beni, servizi e capitali: quella della ricerca, innovazione e istruzione nel mercato unico, che – si legge – «devono essere la guida e i propulsori del nuovo mercato unico, per realizzare un’economia basata sulla conoscenza, per un ecosistema che stimoli la vitalità economica, il progresso sociale e l’ispirazione culturale». Del secondo, raccoglie l’urgenza di dotarsi di un capitale umano adeguatamente formato per perseguire le tre grandi sfide su cui si gioca il futuro dell’Europa: accelerare l’innovazione e trovare nuovi motori di crescita, avanzare nel processo di decarbonizzazione e di transizione verso un’economia circolare, rendersi più indipendenti in termini di sicurezza.
La grave carenza di competenze in diversi settori e occupazioni, sia per i lavoratori poco qualificati che per quelli altamente qualificati, aggravata dai preoccupanti andamenti demografici, che erodono la forza lavoro, è infatti il vero punto critico da affrontare. Quanto fatto sinora attraverso l’Agenda europea per le competenze 2020 e gli investimenti sostenuti non ha dato grandi risultati. A minarne l’efficacia sono stati una modesta volontà di coordinamento delle attività da parte degli Stati membri; uno scarso coinvolgimento industriale; una mancanza di valutazioni sistematiche delle risorse investite e un’insufficiente disponibilità di informazioni affidabili, granulari e comparabili su quali competenze servono, sugli stock esistenti e sui flussi desiderati all’interno e tra gli Stati membri, la cosiddetta “skills intelligence”.
È su questa analisi che poggia l’impianto innovativo dell’Unione delle competenze, a partire da una nuova governance multilivello, che sulla carta pare molto promettente. L’organo principale sarà l’European skills high-level board, che coinvolgerà la rappresentanza di tutti gli stakeholder – fornitori di istruzione e formazione, dirigenti d’impresa, parti sociali -, e che avrà come fonte di informazione un Osservatorio permanente, l’European skills intelligence observatory, deputato a fornire la documentazione necessaria per prendere decisioni data-driven. Ma la portata innovativa riguarda anche il metodo, perché per la prima volta il tema delle competenze entra nel semestre europeo tramite una Raccomandazione dedicata, che comporterà il monitoraggio annuale dei risultati di ciascun Paese, sulla base dei quali la Commissione potrà emanare raccomandazioni vincolanti.
Dopodiché bisognerà fare i conti con gli Stati membri, tenendo presente che l’istruzione, la formazione e il lavoro sono di competenza nazionale. Sta a loro attivarsi per trarre il massimo beneficio dal piano europeo, attraverso tutti i principali attori coinvolti, a partire dagli enti pubblici. Saranno i governi, i ministeri, le regioni e gli enti locali i soggetti proponenti di riforme e progetti finanziati dai fondi europei. Poi, naturalmente, tutte le istituzioni educative-formative e le imprese, sia come parte attiva sia come fruitori.
Per l’Italia è un’occasione unica. L’ennesima, si potrebbe dire, da non sprecare. Tutti i dati rilevati in Europa relativi alla carenza di competenze necessarie al mercato, al calo demografico e alla scarsa attrattività di talenti, sono drammaticamente amplificati nel nostro Paese.
Alla base ci sono fattori di tipo culturale, che hanno minato per decenni la qualità del sistema educativo, della formazione e, in definitiva, del mercato del lavoro, in nome dell’egualitarismo e del protezionismo. Se nelle scuole, la carenza di meccanismi di valutazione dei docenti ha comportato un progressivo calo del livello di insegnamento, in ambito professionale la selezione e l’avanzamento di carriera non si basano ancora abbastanza su criteri trasparenti ed equi incentrati sul merito. La Pubblica amministrazione mostra da decenni un’inefficienza generale dovuta a una mancanza di investimento sulle competenze e di riconoscimento delle performance, a cui sta cercando di mettere freno la recente riforma del ministro Zangrillo.
Al momento, la situazione è quella fotografata dal Report 2025 del Meritometro, il primo indicatore quantitativo di sintesi, misurazione e comparazione dello stato del merito in un Paese, ideato dal Forum della meritocrazia Ets. I dati 2024 ci vedono – come negli ultimi dieci anni – in ultima posizione su 12 Stati europei, con un incremento di appena 0,66 punti rispetto al 2023 e un risultato complessivo che ci distanzia di 9 punti dal penultimo paese, la Polonia, di circa 20 dalla Germania che si trova a metà classifica e di una 40ina dai Paesi più virtuosi.
«Il basso livello di meritocrazia in Italia – si legge nel Report – ha profonde ripercussioni sulle performance economiche e sociali del Paese. I dati mostrano una correlazione positiva tra merito e produttività: ad esempio, nei Paesi scandinavi, ai vertici del ranking meritocratico, la produttività del lavoro (Pil per ora lavorata) è in media superiore di circa un terzo rispetto a quella italiana. Una maggiore produttività si traduce in una maggiore competitività, in un aumento degli investimenti e in una migliore occupabilità». Ma la situazione ha un impatto che va ben oltre gli aspetti economici. Come attestato dal Rapporto sul benessere sostenibile e inclusivo del Joint research centre della Commissione europea, «l’Italia registra ampi divari di genere nell’occupazione, una forte disuguaglianza dei redditi e un sistema istituzionale inefficiente. Inoltre, le risorse per il futuro – capitale economico, umano e sociale – sono ferme ai livelli del 2011, compromettendo le prospettive delle nuove generazioni».
Di fronte a un contesto così compromesso, l’Unione delle competenze rappresenta una possibilità concreta di svolta, che andrebbe presa molto seriamente, avendo ben chiaro che quanto più la risposta sarà ecosistemica, tanto più gli effetti saranno rilevanti.
Per questo appare particolarmente significativa la scelta operata dalla Regione Emilia-Romagna, che si è dotata, un paio di anni fa, della Legge regionale n. 2/2023 “Attrazione, permanenza e valorizzazione dei talenti ad elevata specializzazione in Emilia-Romagna”, con l’obiettivo di attrarre e trattenere persone a elevata specializzazione italiane e straniere. Una disposizione che ha comportato un enorme lavoro di raccordo tra gli enti pubblici e tutti gli stakeholder territoriali, per creare una piattaforma unica di coordinamento delle politiche volte alla valorizzazione del capitale umano. È un vero salto qualitativo dell’approccio della Pa, che per la prima volta volge l’attenzione ai talenti, un mindset che si rivelerà assai utile per avanzare progetti nell’ambito della nuova strategia europea.
L’Unione delle competenze rappresenta una possibilità concreta di svolta: quanto più la risposta sarà ecosistemica tanto più gli effetti saranno rilevanti