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Mappe aperte

Con assetti internazionali in costante evoluzione, il sistema produttivo italiano ha l’opportunità e la responsabilità di rinnovare le proprie strategie globali

Made in India. La scritta potrebbe comparire sugli iPhone dall’anno prossimo: Apple sta valutando di spostare la propria produzione dalla Cina. E nel subcontinente indiano saranno assemblati anche gli smartphone di Google, ora prodotti in Vietnam. Motivo: i dazi imposti dal presidente Donald Trump, ultima frattura in un modello di globalizzazione da anni in discussione.

Le conseguenze possono essere pesanti su tutte le economie, mette in guardia il Fondo monetario internazionale. Ennesimi segnali di un ordine mondiale che cambia, con un’evoluzione accelerata dal Covid ma non solo.

All’alba del 23 marzo 2021 il mondo è costretto a ricordarsi che esiste ancora la geografia: una gigantesca portacontainer resta incastrata nel canale di Suez. È la Ever Given, che per sei giorni blocca una rotta fondamentale, congelando il commercio globale con perdite stimate in decine di miliardi di dollari. Il segno che, in un mondo dominato dalla finanza immateriale, anche il meteo può causare danni globali.

A sottolineare la lezione, i due conflitti, quello in Ucraina e quello in Medio Oriente, con le minacce alle navi nel mar Rosso da parte dei ribelli houthi. Abbastanza da far sì che le imprese inizino a modificare il proprio ciclo produttivo e di approvvigionamento, spiega il professore Carlo Altomonte, economista alla Bocconi: «Con l’incertezza geopolitica le aziende hanno iniziato ad aumentare le scorte. Magazzini più ampi permettono di far fronte agli imprevisti, e anche di riorganizzare la produzione, facendo un po’ di reshoring». Ovvero riavvicinando alcune produzioni ai propri Paesi d’origine. Ma soprattutto, dice il professore, «stavano facendo friendshoring, creando catene di rifornimento basate su Paesi amici, alleati affidabili come Canada e Messico. In Cina si delocalizzava parte della propria produzione, ma sempre conservando delle alternative: Paesi neutrali emersi negli scorsi anni, anche come piattaforme di partenza per merci dirette in mercati più grandi».

Ridurre la propria dipendenza da Paesi fornitori scomodi è una pratica diventata necessaria per l’Unione europea. La presidente della Commissione, von der Leyen, ha parlato più volte di de-risking: diversificare le fonti di approvvigionamento di beni e componenti considerati strategici. Una strategia che vale per il gas russo, ma anche per le merci cinesi.

In parallelo, gli Stati Uniti sperimentano un altro modello: il decoupling, ovvero evitare la dipendenza da uno specifico partner. E anche in questo caso, si parla di Cina.

«Il Paese dopo la pandemia ha sostituito l’Unione europea come principale esportatore del mondo», spiega il professor Altomonte.

In questo panorama è arrivata la mossa del presidente americano Trump nel cosiddetto Liberation Day del 2 aprile: «Lo shock delle tariffe annunciate quel giorno è stato violento e abbastanza inaspettato – dice il prof. Altomonte -. I trend che prima si stavano delineando sono stati sostituiti da più incertezza. Adesso c’è da capire quanto il resto del mondo resterà aperto». La risposta a questo interrogativo sarà cruciale, visto che il resto del mondo, chiarisce sempre l’economista, «rappresenta l’87% del commercio globale».

E per questo sarà necessario evitare altre guerre commerciali, oltre a quella in corso.

Guerre che potrebbero combattersi tra blocchi geopolitici, più che tra singoli Paesi: c’è chi ha visto nei dazi voluti da Trump un modo per tentare di imporre il decoupling anche ad altri Stati e creare una coalizione commerciale anticinese. «Si tratta solo di uno slogan», è convinta la professoressa Alessia Amighini, economista all’Università del Piemonte Orientale ed esperta di Cina per l’Istituto di studi di politica internazionale. «Le imprese cinesi – osserva – si stanno riorganizzando per aggirare i dazi. Hanno spostato alcune produzioni in Vietnam o Cambogia. Cambiano le catene globali di fornitura, proprio quello che vuole Trump. Che punta anche su una rilocalizzazione delle attività produttive dall’Europa e dall’Asia negli Stati Uniti. E lo fa attraverso il tariff jumping: invece di indurre gli imprenditori americani a riportare la produzione in America, Trump punta su dazi alti per spingere tutti gli altri a produrre negli Usa».

In sostanza, quello che la Cina vorrebbe evitare: ha troppo bisogno di continuare a esportare, chiarisce il professore Altomonte: «Usa la domanda estera come sostituto di quella interna, che è in crisi perché i consumi sono bassi. In contemporanea punta su una base industriale potente. Quello che dobbiamo capire è se la Cina nel contesto post-dazi americani accetterà di restare un mercato aperto anche alle esportazioni degli altri». E non è scontato, visto che per ora ha puntato sistematicamente sul surplus commerciale. Anche con ambiziosi progetti praticamente unidirezionali, a partire dalla nuova via della Seta. La “Belt and Road Initiative” voluta dal presidente Xi Jinping serviva a portare merci da Oriente a Occidente attraverso una serie di infrastrutture e accordi commerciali. Ma era molto complicato percorrere la stessa strada in direzione contraria.

Del resto, anche la guerra dei dazi innescata da Trump risponde all’esigenza di non perdere la propria base produttiva e manifatturiera, dice il prof. Altomonte. «L’obiettivo è rendere più sostenibile il deficit commerciale americano, recuperando competitività e indebitamento. Gli Stati Uniti si rendono conto che, se la propria manifattura si restringe troppo, da un lato si comprime lo spazio per la loro classe media, dall’altro rischiano di essere più vulnerabili alla sfida tecnologica con la Cina». Ed è su quello che si gioca il futuro.

Tra Cina e Stati Uniti, però, c’è l’Europa. «Ha un ruolo sempre più importante» è convinta la professoressa Amighini. E se gli accordi commerciali sono appannaggio della Commissione, il nostro Paese può comunque fare molto. «Diversificare è la parola d’ordine» ha detto il direttore generale dell’Ice, Lorenzo Galanti, al Business Forum Italia-Turchia che si è tenuto a fine aprile. Istanbul, appunto, è una delle capitali del commercio globale e per l’Italia è una destinazione attraente: il Paese è in crescita e così anche le nostre esportazioni negli ultimi anni. Tanto che è tra i mercati su cui puntare nel piano d’azione per l’export presentato dal Governo italiano.

In cui compare anche un’altra area strategica: il Sudest asiatico. È d’accordo anche la professoressa Amighini: «È un mercato enorme, con cui l’Unione europea ha sempre avuto relazioni eccellenti. Poi se includiamo anche l’India, che si sta affacciando in modo molto prepotente e assertivo, possiamo fare tranquillamente a meno della Cina». E le imprese italiane lo stanno già facendo, con investimenti in particolare nel distretto di Pune. Ma non solo, altro mercato molto vivace, aggiunge la professoressa Amighini, è la Malesia: «Un Paese avanzato, con grande capitale intellettuale e fisico, che ha già ereditato produzioni che erano in Cina».

In un mondo che si riassesta su nuove rotte, le imprese italiane hanno la possibilità – e la responsabilità – di ripensare le proprie strategie globali, cogliendo i segnali di cambiamento e trasformandoli in vantaggio competitivo.

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