Con il suo background imprenditoriale, Lorenzo Basso è l’uomo che ha tirato le fila dei lavori di indagine su Industria 4.0 realizzata dalla X Commissione della Camera dei Deputati.
Dopo 36 diversi soggetti audìti e 3 missioni sul campo, ne è risultato un documento di oltre 100 pagine fitte di contenuto, che l’On. Basso è riuscito a sintetizzare nella relazione, molto seguita, che ha tenuto a Montecitorio lo scorso 6 luglio, alla presenza del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda.
Mentre si attende l’avvio della Cabina di Regia governativa che si occuperà del Piano nazionale sulla Industria 4.0, analizziamo insieme a lui in chiaroscuro i risultati di questo studio, al quale Federmanager ha fornito un proprio preciso contributo.
On. Basso, questo lavoro su Industria 4.0 ha certamente il merito di aver riportato il parlamento a occuparsi di politica industriale. E, aspetto non trascurabile, è stato approvato all’unanimità dai componenti della X Commissione. A cosa si deve un tale consenso?
L’approvazione all’unanimità era per me un obiettivo fondamentale sin dall’inizio. Per adottare una strategia che fosse indipendente dagli equilibri partitici o di governo, dalla Commissione doveva arrivare un’indicazione precisa e di lungo periodo. Sicuramente i tratti di questa indagine hanno favorito questo consenso.
Per prima cosa, dopo quasi 30 anni, la Camera si è dedicata a indagare l’intero stato di salute della nostra industria e le sue potenzialità di crescita futura, senza concentrarsi sul singolo settore o sulla singola situazione di crisi.
La tematica è complessa ed è stata molto discussa, anche perché le conseguenze della Quarta rivoluzione industriale hanno risvolti sociali e chiavi di lettura diverse.
È stato però un lavoro di gruppo, e questa è la seconda ragione: man mano i componenti della Commissione si sono convinti che da questa “Rivoluzione” passa il futuro e la crescita del nostro Paese e la collaborazione si è intensificata. Infine, c’è una terza ragione: questo documento non è semplicemente un’analisi, bensì anticipa una proposta di azione.
Perciò lo abbiamo presentato pubblicamente e ora lo stiamo portando in giro per l’Italia.
È un documento di indirizzo strategico, utile e non solo corretto, che corrisponde alla missione che spetta al Parlamento: indicare la strada da seguire sul lungo periodo nell’interesse generale.
Tra tutte le proposte di azione indicate, quali sono davvero prioritarie per realizzare la “via italiana” all’Industria 4.0?
Le priorità sono rappresentate dai 5 pilastri che abbiamo indicato dettagliatamente: governance, infrastrutture abilitanti, competenze digitali, ricerca e sviluppo, innovazione open.
Questi 5 pilastri vanno subito realizzati perché rappresentano le pre-condizioni necessarie ma non sufficienti da sole a realizzare questa rivoluzione.
Diciamo che sono le priorità abilitanti. Dall’analisi dei 12 Paesi che abbiamo eseguito si comprende quanto i piani adottati da altri governi siano più articolati. Ci dobbiamo pertanto muovere verso una politica a tutto campo, che preveda semplificazione normativa accanto all’introduzione di incentivi, investimenti finanziari e investimenti sulla formazione.
La vostra analisi fotografa un’Italia ricca di capitale umano e assai meno ricca di capitale finanziario. Avete chiaro dove concentrare gli investimenti?
Se si proponesse un piano di investimenti decuplicati, esso rimarrebbe nel “libro dei sogni”, sarebbe disatteso nella realtà. Noi abbiamo cercato di fare una cosa più seria.
Abbiamo ripreso i piani convalidati e reindirizzato gli stanziamenti già previsti in modo strategico per realizzare la conversione digitale. Ad esempio, i finanziamenti per la realizzazione del Digital Sigle Market devono servire a sostenere le imprese che innovano prodotti e processi.
La priorità va assegnata a chi produce. Prima la fibra ottica deve raggiungere le zone industriali, poi la portiamo nelle realtà più distanti. Se facessimo indiscriminatamente investimenti sul territorio o direttamente sui consumatori, finiremmo per favorire le imprese straniere.
Porto un altro esempio: liberare alcune frequenze televisive per ottenere più banda wireless certamente non soddisfa tutti, ma permette di sfruttare risorse già stanziate in modo funzionale a raggiungere l’obiettivo.
Il problema della Quarta rivoluzione industriale è che ha davvero bisogno di ingenti risorse. Partiamo dunque dal riposizionare gli 8 miliardi di euro a disposizione, rimoduliamo i fondi approvati dal Cipe per la banda larga o i fondi europei per la Human Technopole su scopi concreti e seri.
In questo modo non si rischia di creare fratture nel Paese, tra chi è già tecnologicamente dinamico e chi è rimasto indietro, tra un Nord che corre e un Meridione che arranca?
Bisogna essere onesti: se parliamo di rivoluzione dobbiamo accettare l’idea che ci siano dei vincitori e dei vinti. Abbiamo inteso dare una direzione di marcia affinché sia possibile costruire una specializzazione dei territori.
Quando pensiamo ai Digital Innovation Hub, dobbiamo pensare a distretti con specificità ulteriori, diversi dai quelli già esistenti, che vanno rafforzati con lo sviluppo di economie di scala. Creiamo nuovi ecosistemi tecnologicamente all’avanguardia accanto ai distretti industriali tradizionali. È un salto di qualità per le stesse PMI.
Se questo è il modello, quali gli strumenti?
Uno degli obiettivi è proprio costruire una cultura manageriale diffusa. Ricerca e sviluppo da un lato, competenze manageriali dall’altro sono i due elementi necessari per far crescere il nostro tessuto imprenditoriale e vincere sui mercati globali.
Questo Paese ha manager validi e preparati che potrebbero aiutare il sistema aziendale italiano a non risentire più della visione localistica che ancora è dominante. L’industria italiana di oggi è in grado di mettere in produzione esemplari unici.
Questa è la sua principale caratteristica. In un mercato globale veloce le dimensioni piccole delle nostre PMI o delle start-up innovative consentono di adattarsi più facilmente ai mutamenti del mercato ma, per essere competitivi, serve una grande professionalità nelle competenze di prodotto e nella produzione.
In Germania ad esempio sono stati attivati dei road show per traghettare metodi e modelli dalla grande impresa alle piccole realtà manifatturiere locali.
Lasciando invariata la leggerezza e la flessibilità tipica delle nostre PMI, immaginiamo un sistema in cui agevolare l’introduzione di figure manageriali con le giuste competenze.
Si riferisce a misure di agevolazione fiscale?
Abbiamo proposto di costruire un sistema di incentivazioni per la gestione integrata degli hub tecnologici da affidare a manager che sappiano coordinare più realtà aziendali, metterle in rete e realizzare business ad alto valore aggiunto. Da noi dobbiamo costruire reti associative che coltivino managerialità nei territori.
L’idea che abbiamo suggerito al ministro Calenda è costruita sulla falsa riga di quanto sperimentato nel recente passato con i voucher per l’export manager. Pensiamo che incentivare le imprese ad assumere manager sia possibile nell’ambito della strategia europea per i Digital Innovation Hub: uno schema di agevolazioni fiscali che, finanziato con le risorse comunitarie, può essere declinato sulle specificità del tessuto italiano ed essere al contempo sostenibile.
Tutto questo nel rispetto della neutralità settoriale, che sia lei sia il ministro Calenda avete indicato quale principio guida. Davvero non è il caso, Onorevole, che si offra un indirizzo più preciso sulle produzioni strategiche su cui l’Italia deve puntare?
Non abbiamo fatto la scelta degli asiatici, che hanno individuato le produzioni, né quella degli USA, apertamente concentrati su IoT e Big Data. Sostenere la neutralità tecnologica e la neutralità settoriale non significa rinunciare a una strategia di politica industriale. Sappiamo benissimo che automotive e farmaceutico sono per noi settori trainanti, dove possiamo vantare importanti filiere.
Però, non decidiamo preventivamente di concentrare lì le risorse; piuttosto, ragioniamo in termini normativi, semplifichiamo il sistema, togliamo gli ostacoli burocratici. Per un paese piccolo come il nostro sarebbe inopportuno fare una scelta di settore senza i numeri di mercato interno adeguati per avallarla. Cina e Stati Uniti hanno certamente dimensioni diversi. Noi, come la Germania, dobbiamo favorire la crescita del tessuto produttivo attraverso la tecnologia senza preventivamente abbandonare nessuno.
Dina Galano
Giornalista, Vice Direttore Progetto Manager