Dirigere significa “potere”, in tutte le accezioni che accompagnano questa parola così chiara e al contempo misteriosa. Ma di cosa parliamo esattamente? E cosa siamo disposti a fare per ottenerlo? Jeffrey Pfeffer con il suo libro “Power” rompe gli schemi e prova a spiegare, attraverso un puntuale metodo analitico, come conquistare e mantenere il potere, partendo da storie vere e casi di successo e fallimento. Per gentile concessione di Ayros editore proponiamo di seguito alcuni brani tratti dall’introduzione al volume.
Introduzione: essere pronti per il potere
Essere abili politicamente e perseguire il potere sono caratteristiche correlate al successo professionale e anche alla performance manageriale. Per esempio, uno studio ha messo in relazione le motivazioni primarie dei manager e il loro successo professionale. I manager di un primo gruppo erano motivati principalmente dal bisogno di appartenenza: erano più interessati a piacere che a portare a casa il risultato. Un secondo gruppo era motivato primariamente dal bisogno di achievement: il raggiungimento degli obiettivi in se stessi. Il terzo gruppo, invece, era interessato soprattutto al potere. I risultati hanno dimostrato che questo terzo gruppo, ovvero quello dei manager interessati innanzitutto al potere, era il più efficace, non solo nel raggiungere posizioni di influenza all’interno delle aziende, ma anche nel portare a termine il proprio lavoro. Si può competere e persino trionfare all’interno di organizzazioni di ogni tipo, grandi e piccole, del settore pubblico o privato, se si comprendono i principi del potere e si è disposti a usarli. L’obiettivo è imparare come prevalere nelle battaglie politiche che bisognerà affrontare. Il mio lavoro, in questo libro, è spiegare come farlo.
Si può trionfare all’interno di organizzazioni di ogni tipo, grandi e piccole, se si comprendono i principi del potere e si è disposti a usarli
Perché bisogna desiderare il potere
Perché non limitarsi a evitare il potere, tenere la testa bassa e accontentarsi di prendere ciò che la vita ci offre? Innanzitutto, c’è un legame tra avere potere e vivere una vita più lunga e più sana. Quando Michael Marmot esaminò la mortalità per malattie cardiache dei dipendenti pubblici britannici, notò un fatto interessante: più basso era l’inquadramento dell’impiegato, maggiore era il rischio di mortalità compensato in base all’età. Ovviamente ci sono molte variabili che sono correlate alla posizione di qualcuno all’interno di una gerarchia organizzativa, tra cui l’incidenza del fumo, le abitudini alimentari e così via. Tuttavia, Marmot e i suoi colleghi scoprirono che solo circa un quarto della variazione osservata nel tasso di mortalità poteva essere spiegata da differenze non correlate alla posizione gerarchica, come il fumo, il colesterolo, la pressione sanguigna, l’obesità e l’attività fisica. Ciò che contava era il potere e lo status: cose che davano alle persone un maggiore controllo sul proprio ambiente di lavoro.
Questi risultati non dovrebbero sorprenderci più di tanto. Non poter controllare il proprio ambiente genera una sensazione di impotenza e stress e sentirsi stressati o non avere la situazione «sotto controllo» può far male alla salute. Quindi, essere in una posizione di potere e prestigio limitati è davvero pericoloso per la salute mentre, al contrario, il potere, e il controllo che ne deriva, allungano la vita. In secondo luogo, il potere, e la visibilità e l’importanza che lo accompagnano, possono generare ricchezza.
In terzo luogo, il potere fa parte della leadership e serve per realizzare le cose, che si tratti di cambiare il sistema sanitario statunitense, trasformare le organizzazioni in modo che siano luoghi più umani in cui lavorare o modificare aspetti della politica sociale e del benessere delle persone. Lo psicologo sociale
David McClelland ha parlato di un bisogno del potere. Anche se ovviamente la forza di questo movente varia tra gli individui, McClelland ha descritto la spinta verso il potere, insieme al bisogno di riuscire, come un impulso umano fondamentale, presente in persone provenienti da culture differenti. Se qualcuno cerca il potere, sarà più felice se riuscirà nel suo tentativo di ottenerlo. Per poter essere efficaci nel pianificare il proprio percorso verso il potere e mettere realmente a frutto ciò che si impara, bisogna prima superare tre ostacoli principali. I primi due sono la convinzione che il mondo sia un posto giusto e le formule di seconda mano sulla leadership che in larga misura riflettono questa errata convinzione. Il terzo ostacolo è costituito da noi stessi.
Ci sono tre ostacoli da superare: i primi due sono la convinzione che il mondo sia un posto giusto e le formule di seconda mano sulla leadership. Il terzo è costituito da noi stessi
Smettere di pensare che il mondo sia giusto
Molte persone ingannano se stesse riguardo al mondo organizzativo in cui vivono. Questo perché preferiscono credere che il mondo sia un posto bello e giusto e che ognuno ottenga ciò che merita. E, poiché tendenzialmente le persone credono di essere meritevoli, giungono a pensare che, se lavoreranno bene e si comporteranno in modo adeguato, le cose si sistemeranno da sole. Inoltre, la maggior parte delle persone, quando vede qualcuno fare qualcosa che considera inappropriato, autocelebrativo o «oltre il limite», non ci vede nulla di istruttivo e crede che, anche se in quel momento quelle persone hanno successo, alla fine si ritroveranno dalla parte dei perdenti. Credere in un mondo giusto ha due grandi effetti negativi sulla capacità di acquisire potere. In primo luogo, ostacola la capacità delle persone di apprendere da tutte le situazioni e da tutte le persone, anche quelle che non amano o non rispettano. In secondo luogo, la convinzione che il mondo sia un posto giusto rende insensibili alla necessità di essere proattivi nella costruzione di una base di potere. Se pensano che il mondo sia giusto, le persone non si accorgono delle minacce celate nell’ambiente che possono insidiare la loro carriera.
La pervasività della credenza in un mondo giusto, quella che la psicologia sociale definisce «l’ipotesi del mondo giusto», è stata descritta per la prima volta da Melvin Lerner alcuni decenni fa. Lerner sosteneva che la gente preferisse credere che il mondo fosse prevedibile e comprensibile e, dunque, potenzialmente controllabile. Oppure, per usare le parole di un altro psicologo, fin dalla prima infanzia «impariamo a essere persone “buone e capaci di avere tutto sotto controllo”». Altrimenti come potremmo muoverci in un mondo che è irrazionale e incontrollabile senza sentirci frustrati e minacciati per gran parte del tempo? Il desiderio di controllo e prevedibilità si traduce in una tendenza a vedere il mondo come un posto dove regna la giustizia, perché un mondo giusto è anche comprensibile e prevedibile.
Non appena ci accorgiamo dell’«effetto del mondo giusto» e della sua influenza sulle nostre percezioni, e cerchiamo di combattere la tendenza a vedere il mondo come intrinsecamente giusto, diventiamo capaci di imparare di più da ogni situazione e più attenti e proattivi nel porre le basi del nostro successo.
Diffidare di quello che si scrive sulla leadership
L’ostacolo successivo da superare è costituito dalla letteratura sulla leadership. La maggior parte dei libri scritti da dirigenti affermati e la gran parte delle lezioni e dei corsi dedicati alla leadership dovrebbero riportare il seguente avviso: «Attenzione! Il contenuto può mettere a rischio la vostra sopravvivenza all’interno di un’azienda». Questo perché i leader che pubblicizzano la propria carriera come un modello da emulare spesso tralasciano i giochi di potere che hanno effettivamente utilizzato per raggiungere la vetta.
Ciò di cui invece dovremmo fidarci è la ricerca delle scienze sociali, che fornisce aiuto su come acquisire potere, su come tenerselo e su come usarlo. Dovremmo anche fidarci della nostra esperienza: osserviamo chi ci sta intorno, chi ha successo, chi fallisce e chi semplicemente rimane a galla.
Dovremmo anche fidarci della nostra esperienza: osserviamo chi ci sta intorno, chi ha successo, chi fallisce e chi semplicemente rimane a galla
Non ostacolarsi da soli
Il terzo grande ostacolo all’acquisizione del potere, che ci crediamo o no, siamo noi. Le persone sono spesso il proprio peggior nemico e non solo nella lotta per acquisire potere. Ciò è in parte dovuto al fatto che alle persone piace stare bene con se stesse e conservare una buona immagine di sé. Ironicamente, uno dei modi migliori che hanno le persone per preservare la propria autostima è quello di arrendersi preventivamente o agire in modo da porre degli ostacoli sul proprio cammino. Esiste un’immensa letteratura scientifica su questo fenomeno, definito «auto-penalizzazione». La logica sembra semplice, ma non lo è. Le persone desiderano sentirsi bene con se stesse e con le proprie capacità. Ovviamente, qualsiasi esperienza di fallimento mette a repentaglio la propria autostima. Tuttavia, se le persone scelgono intenzionalmente di fare cose che possano diminuire le proprie prestazioni, allora qualsiasi successivo decremento delle prestazioni può essere spiegato come se non riflettesse le loro capacità innate. L’auto-penalizzazione e la rinuncia o il mancato tentativo preventivi sono più diffusi di quanto si possa pensare. Dopo decenni dedicati all’insegnamento su temi riguardanti il potere, sono giunto alla conclusione che il più grande effetto che possa produrre sia quello di convincere le persone a provare a diventare potenti. Questo perché le persone hanno paura delle sconfitte e dei loro effetti sull’immagine che hanno di sé, per cui spesso non fanno tutto ciò che possono per aumentare il proprio potere. Dobbiamo vincere noi stessi e andare oltre le preoccupazioni riguardo all’immagine che abbiamo di noi stessi oppure, che è lo stesso, riguardo alla percezione che gli altri hanno di noi.
Le persone hanno paura delle sconfitte e degli effetti sulla loro immagine, per cui spesso non fanno tutto ciò che possono per aumentare il proprio potere