Chiusi bar, bistrot e ristoranti di mezzo mondo, il made in Italy reagisce con i prodotti della tavola, quelli più classici, pasta e vino (+5,1% di esportazioni verso paesi extra Ue nei primi mesi 2020), e con le eccellenze dei settori farmaceutico e sanitario. Niente di cui stupirsi nel corso di una pandemia, verrebbe da dire. Un comparto, quello della produzione di articoli farmaceutici e chimico-medicali, trainato dalla presenza di distretti tecnologici produttivi, già tra i top europei prima del virus, sui quali le grandi multinazionali hanno investito modernizzando l’intera filiera. Sul +16% nelle esportazioni del comparto possono aver influito anche le conversioni delle linee produttive di alcune aziende, come il caso della fabbrica abruzzese di pannolini che ha iniziato a produrre un milione di mascherine a settimana.
Fonte: elaborazione ICE su dati Istat
Regge poi l’export dei prodotti della filiera alimentare, prodotti dell’agricoltura e della pesca, crolla quello del manufatturiero (-16,1%) dei prodotti tessili (-26,2%) e di articoli in pelle, borse e scarpe (-30%). In questo senso è stato devastante l’annullamento della stagione Primavera 2020, con prodotti attesi mai arrivati alla distribuzione, fiere cancellate, negozi chiusi. Un crollo ancora più traumatico per i numeri positivi registrati dalla moda nel 2019, anno che aveva visto una crescita esponenziale delle esportazioni. Lo stesso non si può dire per l’automotive, comparto che vive una crisi profonda ormai da qualche anno: -26,8% nell’export italiano di mezzi di trasporto e un ulteriore shock sistemico che mette in discussione l’intero modello di produzione just in time, un dibattito sul quale l’Italia dovrà prendere posizione elaborando una strategia industriale nazionale integrata comparabile a quella francese o tedesca. Sull’auto pesa anche il cambio di paradigma dei consumi e un momento di incertezza salariale che modifica le abitudini soprattutto per quanto concerne i beni durevoli.
L’automotive italiano è in crisi: -26,8% per i mezzi di trasporto e, con lo shock sistemico del Covid-19, traballa l’intero modello di produzione just in time
Secondo al mondo a essere colpito duramente dal virus, il Belpaese prima di altri si è trovato davanti alla responsabilità di scegliere tra la salvaguardia delle vite umane e la stabilità economica e sociale. Limitata per ovvi motivi la libertà di spostamento delle persone, era facile prevedere conseguenze funeste sullo scambio internazionale di merci. Le diverse sfumature e tempistiche di lockdown, la durata delle misure restrittive e le decisioni di politica economica hanno provocato effetti negativi a macchia di leopardo sul commercio mondiale.
Se la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina e l’incertezza legata alla Brexit avevano dato seguito a una stagnazione della crescita degli scambi a livello globale – dal +5% del 2018 al +0,4% del 2019 -, per il 2020 ci si attendeva un dato più positivo, grazie a una ritrovata armonia tra cinesi e americani e la competizione tra States e Unione europea nella faccenda Airbus-Boeing che, dopo 16 anni di contenzioso, è stata finalmente risolta nel senso indicato dall’Organizzazione mondiale del commercio.
Fino a qualche mese fa, la principale preoccupazione degli analisti economici era come scongiurare sanzioni e controsanzioni tra Usa e Ue, non certo un imprevedibile shock pandemico. «Siamo davanti a una contrazione rilevante degli scambi dovuta a uno shock contemporaneo di domanda e offerta di beni senza precedenti», spiega Stefano Gorissen, analista di scenari economici per Sace, società che offre servizi assicurativo-finanziari per l’export italiano e che sta sostenendo le imprese colpite dall’emergenza Covid-19 con garanzia Italia. «Nel 2009 il volume globale degli scambi registrò un -12%, insomma a livello di variazioni abbiamo visto di peggio. Preoccupa il crollo della produzione, mondiale e italiana, che sarà peggiore di quello della crisi economica di oltre 10 anni fa, avendo stavolta pesantemente coinvolto anche i paesi emergenti».
Fonte: elaborazione ICE su dati Istat
I dati sulle esportazioni per aree geografiche confermano il trend anche negli scambi, con i dati peggiori registrati nei flussi verso paesi emergenti e mercati in fase di espansione. Le esportazioni verso i paesi Ue, che contano più del 50% dell’export italiano totale, sono diminuite del 15,1% nel periodo gennaio-maggio 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Fuori da Schengen la diminuzione è del 16,9%. Svetta il dato della Cina, paese involontariamente esportatore del virus, verso il quale l’export italiano misura un -22% nei primi cinque mesi dell’anno confrontati allo stesso periodo del 2019. L’emergenza sanitaria si è abbattuta per prima sul gigante asiatico ma il crollo verticale degli scambi sconta un anno di tensioni commerciali che hanno coinvolto anche l’Italia, non ultimi i dubbi e i ripensamenti sul progetto della Nuova via della seta. Pechino ha comunque un peso minoritario sul totale delle esportazioni italiane, il 2,7% del totale, sebbene i margini di investimento e la crescita costante del mercato di consumo cinese, oltre a un sommerso di semilavorati che passano per altri paesi, come la Germania, rendano necessario lo sviluppo di una strategia comune di partnership commerciali, a livello comunitario.
Discorso diverso per l’India, uno dei paesi più interessanti in prospettiva, soprattutto per gli ingenti investimenti pubblici in materia di sviluppo infrastrutturale previsti dal governo, che ancora vale solo lo 0,8% dell’export italiano. Prima del Covid-19 la crescita prevista negli scambi era del 7,7% all’anno. Con la pandemia i rapporti commerciali con Nuova Delhi sono precipitati, registrando un -33%, frutto anche delle rigidissime misure di lockdown messe in atto dal primo ministro Modi, con la chiusura di tutti i voli commerciali.
Difficile fare previsioni, – i trend rispecchiano infatti l’andamento per focolai della pandemia e delle conseguenti misure emergenziali – ma intanto a maggio gli scambi sono precipitati ancora. Se al confronto tra le performance sull’export dei primi mesi di quest’anno rispetto a quelli dell’anno scorso si aggiunge anche il mese di maggio, si capisce quanto ancora lunga sia la strada per raggiungere flussi di interscambio commerciale pre-virus. Nel mese in cui l’Italia cominciava timidamente a riaprire uffici e attività commerciali l’export verso gli Stati Uniti, partner destinatario di una merce su dieci delle esportazioni italiane, cadeva in picchiata. Se fino ad aprile il calo era stato del -2,5%, includendo maggio si sfiora un -8%, un crollo verticale espressione forse del ritardo americano nel tamponare l’emergenza.
Fonte: elaborazione Federmanager su dati Istat
Effetto secondario, ma importantissimo della pandemia è la rivoluzione in atto nel concetto di catena globale del valore. Intere catene di fornitura si sono fermate, interi comparti produttivi sono rimasti bloccati per la mancanza di materie prime o macchinari dalla Cina o dall’altra parte del globo. O sono stati travolti in assenza di adeguata modernizzazione e digitalizzazione delle complesse catene del valore. «Ci si aspetta una conversione del sistema di produzione mondiale», spiega Gorissen, «le catene globali del valore si accorceranno e i prodotti viaggeranno un po’ meno. Si assiste già nell’Unione europea a politiche per favorire il back-shoring, il rientro delle produzioni all’interno dei confini Ue».
Emerge, anche in un contesto di dura crisi economica come quello attuale, la necessità da parte delle imprese di dotarsi di strumenti adeguati, nella fattispecie figure manageriali specializzate e in grado di elaborare strategie adeguate alle nuove sfide globali. In uno studio condotto da Confapi, il 54,7% degli imprenditori italiani ha dichiarato l’esigenza di reperire simili skills, il 35% ha individuato proprio nell’export manager il consulente indispensabile per mantenersi competitivi. Centrale diventerà anche la figura del supply chain manager, riorganizzatore della filiera produttiva ed esperto di gestione digitale.
Dopo tanti dati con il segno meno davanti, ecco un numero che sembra destinato a crescere: tra gli effetti “virtuosi” dello shock pandemico ci potrebbe essere un aumento della propensione all’export digitale. Se già nel 2019, come rilevato da uno studio dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, le esportazioni virtuali erano aumentate del 15%, i due mesi di lockdown dovrebbero aver quantomeno aumentato il valore percentuale di questo tipo di esportazioni rispetto al totale, fermo al 2,5% l’anno scorso. Nonostante la crescita, infatti, l’Italia sconta limiti strutturali, legali e logistici che la piazzano in fondo alla classifica europea degli esportatori digitali. Solo il 40% delle imprese italiane usa canali di e-commerce, il 51% solo canali tradizionali, il 9% non esporta affatto. La crisi sanitaria, intanto, ha portato sul web settori che normalmente non erano avvezzi all’e-commerce come quello sanitario, quello farmaceutico e quello alimentare.
Fonte: elaborazione ICE su dati Istat
Siamo in fondo alla classifica europea degli esportatori digitali. Solo il 40% delle imprese italiane usa canali di e-commerce
Spostando il focus sulle performance regionali – dati disponibili solo sul primo trimestre, che includono dunque un solo mese di lockdown – reggono bene la Lombardia e il Veneto, solo un -3% dopo quasi un mese di restrizioni (ma da sola la Lombardia contribuisce alla flessione di 0,8 punti percentuali sulle esportazioni nazionali su base annua), meno il Piemonte (-5,8%). Risaltano i numeri di Molise (+57%) e Liguria (+39%). Risultati viziati in un caso dalla bassa quantità di esportazioni e dalla presenza di un player forte con flussi stagionali indipendenti (+ 109% nell’esportazione di mezzi di trasporto, vedasi stabilimento Fca di Termoli), nell’altro da gruppi di cantieristica, di costruzione navale e dal porto di Genova (sempre nell’export di mezzi di trasporto la Liguria registra un +909%).