Il XXI secolo è stato battezzato il secolo della conoscenza, per marcare il passaggio dall’economia novecentesca, basata sulla forza lavoro e sulla produzione di massa, a quella digitale, segnata da una portentosa accelerazione dell’innovazione tecnologica, grazie a un capitale umano altamente qualificato. Una quarta rivoluzione industriale che implica innanzitutto una rivoluzione culturale, capace di concepire il necessario adeguamento del sistema educativo e formativo, oltre ad effettuare un’imponente operazione di reskilling e upskilling dei lavoratori.
Di fronte a tale sfida, la risposta dell’Europa è stata a dir poco ambiziosa, quando nel Consiglio europeo di Lisbona del 2000 si è posta l’obiettivo di diventare la “società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. A distanza di 20 anni, tuttavia, i risultati non sono particolarmente soddisfacenti. La decisione di consacrare il 2023 “Anno europeo delle competenze”, con una molteplicità di iniziative e ingenti finanziamenti, è dettata dall’impellenza di accelerare le due prioritarie sfide strategiche dell’eurozona: il Green new deal e la rivoluzione energetica, resa ancora più urgente dalle conseguenze della guerra in Ucraina. Transizioni che, basandosi sull’innovazione di frontiera, richiedono un’eminente ricerca di base e una formazione post-laurea di alto livello.
Green new deal e rivoluzione energetica sono due transizioni che richiedono un’eminente ricerca di base e una formazione post-laurea di alto livello
Sull’onda delle otto competenze chiave individuate nella Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 2006, aggiornata nel 2018 – comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare ad imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale – ci si pone oggi l’obiettivo di valorizzare tutto il potenziale del capitale umano europeo, cercando di allineare le aspirazioni delle persone, le competenze necessarie e le esigenze del mercato del lavoro, in un’ottica di apprendimento continuo.
Cosa non facile, se si considera che attualmente tre quarti delle aziende nell’Ue segnalano difficoltà nel trovare lavoratori con le competenze necessarie, una persona su tre che lavora in Europa non ha competenze digitali di base, permane una bassa rappresentanza di donne nei lavori e nei percorsi di studio legati alle tecnologie, troppi giovani non studiano e non lavorano. Se questa è la situazione generale, le condizioni dei singoli Paesi membri è molto differenziata. Quella italiana mostra dati aggravati dall’emergenza educativa – resa ancor più acuta dalla pandemia – e dallo scarso investimento in formazione continua, fattori ai quali il Piano di ripresa e resilienza sta cercando di dare qualche timida risposta. Ma in Italia ci dovremmo porre anche un’altra domanda: a che servono le competenze se non vengono valorizzate?
Spesso e volentieri si dimentica un aspetto, che è connaturato ed essenziale a un’economia aperta basata sulla conoscenza, ovvero una struttura di incentivi che premi l’impegno individuale, la propensione ad assumersi dei rischi, la progettualità, ecc. In una parola, il merito.
Da diversi indici nazionali e internazionali, si evince che l’Italia non è un Paese meritocratico, non lo è nel settore pubblico come non lo è neanche nel settore privato. I risultati del “Meritometro”, indicatore scientifico del Forum della Meritocrazia, li riassume tutti, collocandoci in fondo ai Paesi europei, con una serie di conseguenze che vanno dallo scarso dinamismo economico, a un’incapacità di attrarre talenti, a una stagnante mobilità sociale sino a un’esclusione femminile al mondo del lavoro tra le più gravi al mondo. Tanto da far dichiarare agli economisti Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli nel loro recente libro “Crescita economica e meritocrazia” (Il Mulino, 2023), che «la scarsa considerazione del merito sia il grande problema che l’Italia deve affrontare oggi». Secondo la loro analisi, le cause affondano le radici in una storia fatta soprattutto di dominazioni e nella costruzione di un’infrastruttura burocratica che ha fatto prevalere, per necessità, un capitalismo di relazione più che meritocratico.
Un’economia basata sulla conoscenza deve avvalersi di una struttura di incentivi che premi l’impegno individuale, la propensione ad assumersi dei rischi, la progettualità. In una parola, il merito
Precise analisi dimostrano che le aziende che godono di rapporti privilegiati con amministratori politici hanno maggiore accesso alle opportunità di business nazionali, riescono a superare più facilmente le rigidità del mercato del lavoro e si rivelano più resilienti, ma nel medio/lungo periodo non crescono in produttività e innovazione, oltre che in dimensioni. Di fatto, scelgono una strategia conservativa, basata su connessioni da mantenere confidenziali e quindi preferiscono scegliere amministratori all’interno o molto vicini alla famiglia titolare. Un’indagine del World Economic Forum rileva che rispetto all’”affidamento su management professionale” l’Italia è al 107esimo posto su 144 Paesi, ovvero i manager sono selezionati non solo per merito ma principalmente per lealtà verso la compagine proprietaria. È anche vero che tale situazione si manifesta soprattutto nel settore dei servizi. L’Italia vanta circa 2 mila imprese manifatturiere perfettamente in grado di competere sui mercati internazionali, che rappresentano il 49% dell’export totale, ovvero circa il 15% del Pil. Sono imprese con oltre 250 dipendenti, dove il recruitment e la valutazione delle performance premiano il talento, dove non si teme l’apertura dei capitali o la quotazione, che richiedono trasparenza e managerializzazione.
Ma solo il 31% dei lavoratori stabili è occupato in aziende del genere, ovvero 3 milioni su una popolazione in età lavorativa di 39 milioni. Il restante 50% lavora in realtà con meno di 50 dipendenti e il 25% in attività con meno di 10. Per non parlare del numero enorme di lavoratori autonomi, di persone con lavoro temporaneo e di quel buco nero che è l’economia sommersa. Se poi allarghiamo la prospettiva ai 3,2 milioni di lavoratori dell’amministrazione pubblica, dove la formazione è del tutto insufficiente, le retribuzioni inadeguate e i meccanismi di incentivazione inesistenti, il quadro appare in tutta la sua gravità.
Non dobbiamo darci per vinti, ma per trovare il nostro posto nella società della conoscenza, dobbiamo operare una drastica scelta a favore del merito, affinché l’investimento in competenze dia alle persone e al Paese il ritorno dovuto.