Nel dicembre 2019, quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen presentava il Green deal – l’ambizioso pacchetto di misure climatiche dell’Unione europea – le sue parole erano cariche di speranza e ambizione. «È il nostro momento sulla Luna» dichiarò la Presidente in conferenza stampa. L’obiettivo era chiaro: costruire un futuro europeo libero dai combustibili fossili, e superare un modello economico fondato su esternalità negative per le persone e per l’ambiente.
Poi, nel giro di pochi mesi, il contesto internazionale è profondamente cambiato. Prima la pandemia di Covid-19, poi l’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente crisi energetica con il rialzo dei prezzi del gas, che ha costretto molti Paesi europei a rivedere in fretta le proprie strategie energetiche. Infine, nel 2024, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.
Una delle prime decisioni della nuova amministrazione statunitense è stata l’uscita dalle conferenze sul clima delle Nazioni Unite. Ma Trump non si è fermato lì: nel quadro del suo “One, Big, Beautiful Bill”, ha avviato lo smantellamento dell’intera architettura climatica ereditata dall’amministrazione precedente, con tagli alla ricerca scientifica, deregolamentazioni ambientali e un aumento significativo dei sussidi alle fonti fossili. Negli Stati Uniti la situazione sembra molto diversa rispetto al recente passato.
Dall’altra parte del Pacifico, invece, la Cina – pur essendo oggi il maggiore emettitore globale di CO₂ – si propone come attore protagonista nella transizione energetica. Pechino domina da anni il mercato delle terre rare, essenziali per le tecnologie verdi; e secondo una recente analisi del sito specializzato Carbon brief, negli ultimi 12 mesi la crescita della produzione di energia pulita ha portato a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica nel Paese. Un dato significativo, perché per la prima volta questo calo non è associato a una frenata dell’economia. Si tratta certo di un segnale ancora fragile, viste le profonde contraddizioni che caratterizzano il sistema cinese, ma sufficiente a suggerire che gli equilibri della diplomazia climatica stanno cambiando.
Con l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei +1.5 °C sempre più a rischio, i prossimi anni pongono l’Unione europea davanti a un bivio: mantenere la rotta ambiziosa tracciata nel 2019 o adattarsi alle nuove pressioni globali e rischiare di ritrovarsi tra qualche decennio con un pianeta segnato da eventi climatici estremi, scarsità d’acqua, migrazioni forzate ed ecosistemi profondamente alterati.
A che punto siamo
Per capire dove si trova oggi l’Europa sul cammino del Green deal, abbiamo chiesto un aggiornamento a Francesca Bellisai, analista di politiche Ue per il think tank climatico Ecco. «Un buon punto di partenza è la valutazione pubblicata dalla Commissione europea il 28 maggio sui Piani nazionali energia e clima (Pnec), i documenti con cui gli Stati membri definiscono le loro strategie di decarbonizzazione al 2030», spiega Bellisai. «Secondo questa valutazione, se tutti i Pnec venissero attuati integralmente, l’Unione europea arriverebbe a una riduzione del 54% delle emissioni nette entro il 2030, quindi molto vicina all’obiettivo ufficiale del -55%. Siamo sulla buona strada, ma a una condizione: che le misure previste vengano davvero messe in pratica, e in modo costante, anno dopo anno».
Questa valutazione positiva arriva in un momento di incertezza. La nuova Commissione, sulla scia di quella che alcuni analisti hanno chiamato “reazione verde”, ha modificato la propria narrazione spostando l’attenzione dalla transizione verde alla competitività industriale. Alcuni elementi chiave del Green Deal sono stati rivisti alla luce della “semplificazione normativa”. Tra i provvedimenti più controversi, la moratoria introdotta lo scorso aprile dal pacchetto Omnibus, che sospende temporaneamente le misure sulla due diligence e la responsabilità aziendale in materia di rendicontazione di sostenibilità. Una scelta che, secondo diversi osservatori, oltre a rappresentare un passo indietro, rischia di penalizzare proprio le imprese che hanno già investito in questo senso.
A rafforzare il quadro fornito dalla Commissione, è anche uno studio del Centro comune di ricerca della Commissione europea, che ha mappato 44 documenti politici programmatici adottati tra il 2019 e il 2024, identificando progressi tangibili in settori chiave. Le emissioni di gas serra continuano a diminuire, soprattutto in comparti come energia e industria. Restano, però, ancora aree critiche. Le fonti rinnovabili, ad esempio, devono crescere molto più rapidamente per centrare l’obiettivo del 42,5% entro il 2030; mentre il ripristino degli ecosistemi e l’estensione delle aree protette sono ancora molto insufficienti. Un altro problema strutturale è la qualità del monitoraggio: il 28% degli obiettivi del Green deal manca ancora di dati aggiornati o affidabili.
«Non possiamo essere ottimisti su tutte le politiche», commenta Bellisai. «Ci sono settori in cui stiamo facendo passi avanti importanti rispetto al passato, ma ce ne sono altri in cui la situazione è decisamente scoraggiante: serve molto più impegno».
Un nodo cruciale da sciogliere è quello delle risorse economiche. Per sostenere le ambizioni del Green deal serve una strategia finanziaria chiara e comune, che oggi sembra mancare. Un esempio è quello che è avvenuto con il Clean industrial deal, il piano di sviluppo industriale emanato dalla Commissione lo scorso febbraio che prevede solo 100 miliardi di euro mobilitati in 15 anni – una cifra giudicata da molti analisti largamente insufficiente. «Spesso vengono elencate varie fonti di finanziamento possibili, ma manca una valutazione puntuale dei costi reali delle singole politiche» osserva Bellisai. «Per costruire una strategia d’investimento efficace, bisogna stimare gli effetti delle singole politiche e i relativi fondi per attuarle».

Nei prossimi mesi si attendono dunque segnali più concreti. Un passaggio chiave potrebbe arrivare il 1° luglio, quando la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione passerà dalla Polonia alla Danimarca, uno dei Paesi più ambiziosi sul fronte climatico. «Per ora abbiamo assistito a un cambio di narrativa sul Green Deal, ma non ancora a un cambio netto di rotta», afferma Bellisai. «Ci sono elementi di discontinuità, ma anche segnali di continuità. Quindi aspetterei a dare un giudizio definitivo».
Ma per rispondere davvero a queste domande, serviranno meno proclami e più azioni concrete. Uno degli snodi principali sarà la definizione del nuovo Ndc (contributo determinato a livello nazionale) in vista della COP30 di Belém, in Brasile. «Se l’Europa riuscisse a presentare un obiettivo ambizioso per il 2040, sarebbe un segnale importante», continua Bellisai. «Non si tratta solo di fissare numeri: significherebbe riaffermare la leadership europea in un momento in cui molti si chiedono se il Green deal stia rallentando o no».