Nel discorso al Senato chiamato a conferirgli la sua fiducia, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha offerto un’ampia panoramica dei rapporti internazionali dell’Italia. Con le bussole dell’europeismo e dell’atlantismo in mano, il nuovo inquilino di palazzo Chigi ha rievocato gli «ancoraggi storici dell’Italia», ossia Unione europea, Alleanza atlantica, Nazioni unite. Ha riacceso un faro sui Balcani, sul Mediterraneo allargato e sull’Africa. Ha evidenziato la necessità di un «rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania», ma anche di una collaborazione con i paesi del sud europeo sulle problematiche ambientale e migratoria. Ha invitato al dialogo con la Turchia e con la Russia. Ha espresso preoccupazione per le tensioni «in Asia intorno alla Cina» e per quegli Stati in cui «i diritti dei cittadini sono spesso violati». Ha citato il Regno Unito soltanto parlando della Conferenza delle parti sul cambiamento climatico (Cop 26), che sarà organizzata da Londra assieme a Roma.
Nel suo discorso per la fiducia, Mario Draghi ha citato il Regno Unito soltanto una volta, parlando della conferenza sul clima (Cop 26)
Non una parola di più sul Regno Unito. Può sorprendere, specie se si pensa che Draghi, da governatore della Banca centrale europea fino all’ottobre del 2019, ha seguito con occhio molto attento buona parte delle trattative per la Brexit. Tuttavia, sorprendersi di questo sarebbe un errore. Draghi è – in questo, ma non soltanto – molto merkeliano: la Brexit c’è stata (anche se mancano alcuni accordi come quello sui servizi finanziari: entro il prossimo marzo dovrebbe essere firmato un memorandum of understanding a riguardo) – adesso è arrivato il momento di voltare pagina.
Come ben hanno spiegato Antonio Villafranca e Carlo Mongini, in un commentary pubblicato online sul sito dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ora regna l’incertezza.
C’è l’incertezza sul futuro del Regno Unito. Se unito davvero rimarrà. Le attuali regole stabilite dall’accordo di Natale stanno già creando difficoltà al commercio tra Londra e Belfast, pur trattandosi dello stesso Stato, notano i due esperti: «L’Ulster è rimasta de facto parte del Mercato unico europeo, le merci continuano ad attraversare liberamente il confine con l’Irlanda. Al contrario, nel mare che separa il Regno Unito e l’Irlanda del Nord dovranno essere effettuati controlli ed esperite altre formalità doganali». Il risultato? «Forti rallentamenti nella spedizione di beni (come pesce e carne) diretti in Irlanda del Nord, inclusi quelli che continueranno poi la loro corsa verso Dublino». Il tutto ha generato «nell’immediato la carenza di prodotti alimentari britannici nei supermercati nord-irlandesi». Ma non solo: «è sempre più evidente il rischio di un aumento dei prezzi nel Regno Unito, date le spese legate alle formalità burocratiche».
Poi c’è la questione scozzese. Nel Paese delle cornamuse, il “remain” aveva raggiunto il 62% nel referendum del 2016, ma la vittoria del “leave” in Galles e in Inghilterra aveva sancito il primo passo verso la Brexit. E infatti il governo scozzese non ha mai fatto mistero della sua ferma opposizione all’uscita dall’Unione europea. Anzi, la first minister Nicola Sturgeon, alla guida del Partito nazionale scozzese, è tornata a rivendicare la propria indipendenza da Londra con la prospettiva di rientrare nell’Unione europea. Ma da Londra è sempre – per ora almeno – arrivato un secco no alla richiesta di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia (dopo quello “fallito” del 2014). Può avvenire solamente «una volta per ogni generazione», ha risposto il primo ministro britannico Boris Johnson.
Dunque, il rischio, come ha sottolineato nel corso di una recente intervista con alcuni reporter internazionali Michel Barnier, capo negoziatore della Commissione europea per la Brexit, è che l’incertezza nei rapporti tra Regno Unito e Unione europea diventi il «new normal».
Per il capo negoziatore della Commissione Ue, Michel Barnier, c’è il rischio che l’incertezza nei rapporti tra Regno Unito e Unione europea diventi il “new normal”
Di questo – spero mi perdonerà il lettore se ora scrivo in prima persona – ho avuto dimostrazione moderando recentemente un webinar del ciclo “Alumni Global Talks”, organizzato dall’associazione alumni dell’università Cattolica del Sacro Cuore.
Secondo Simone Rosti, head of Italy and branch manager di Vanguard, società di investimenti americana tra le più grandi al mondo, «gli effetti di Brexit si sentono, ma sono meno forti di quelli previsti da chi annunciava il disastro. È un percorso di assestamento che non si è ancora fermato».
«Importanti studi legali statunitensi stanno aprendo sedi a Bruxelles per poter continuare a fare consulenza ai loro clienti su temi di antitrust e concorrenza», ha raccontato Cristiana Visco, avvocato e senior associate per il settore corporate/mergers and acquisitions di Clifford Chance. «Con l’accordo, gli avvocati che esercitano in Regno Unito non possono più dare pareri su casi di diritto europeo. Anche gli avvocati che arriveranno dall’Unione europea nel Regno Unito avranno meno riconoscimenti per le loro qualifiche pregresse e saranno iscritti al registro dei foreign lawyers, che prevede più restrizioni».
Tommaso Migliore, Ceo di Mdotm, start up leader europea per l’applicazione dell’intelligenza artificiale nel settore finanziario, ha raccontato «la flessibilità del mercato inglese» definendolo «solo uno dei tanti vantaggi ancora irrinunciabili». Ma non solo: «A Londra le attività di funding, centrali per aziende giovani come la nostra, sono ancora le più attrattive. I migliori fondi sono lì e riescono ad attrarre grandi quantità di capitali. È vero che molti lavoratori si sono spostati da Londra verso altre capitali europee, ma si tratta di manager e amministrativi. Per interazioni di alto livello il centro delle operazioni, per ora, resta ancora Londra».
Nonostante le incertezze, dunque, Londra rimane attrattiva. E lo rimarrà, anche per un gap di competenze e possibilità ancora evidente e difficilmente colmabile in un breve lasso di tempo. Per noi italiani, anche di più, visto che lì si trova la più grande comunità italiana all’estero di tutto il mondo.
Ma Londra non è il Regno Unito. E questa è un’altra storia.