“Qualsiasi discorso sulla dirigenza dovrebbe considerare il tema della solitudine decisionale”. Maddalena Boffoli, giuslavorista e fondatrice dello studio associato che porta il suo nome, segue quotidianamente questioni legali di top manager e multinazionali. Che abbia maturato grande esperienza si capisce bene, quando spiega: “I Consigli di amministrazione danno le direttive. Ma poi sono il direttore generale, il Cfo o il direttore di stabilimento che devono portare avanti il piano industriale e occuparsi degli aspetti organizzativi e del personale. I dirigenti sono nel mezzo, sono i brutti e cattivi. Ed è per questo che necessitano di tutele”.
Maddalena Boffoli, avvocato cassazionista, esperta di diritto del lavoro e civile, titolare dello Studio legale Boffoli
Avvocato Boffoli, la crisi generata dalla pandemia ha accentuato questa solitudine?
L’emergenza Covid-19 ha di fatto paralizzato l’attività del mercato per due anni. Ci sono state enormi complessità organizzative, a cui si è aggiunto il blocco dei licenziamenti. È anche cambiata la platea: i dirigenti oggi hanno responsabilità diverse, sono portatori di procure e di deleghe nuove da parte dell’imprenditore. Sono esposti a responsabilità penali e amministrative più ampie. Tutto questo, in un contesto normativo che cambia ogni mattina. Se è vero che ignorantia legis non excusat, è vero altresì che in Italia non è facile districarsi nella matassa legislativa.
Si riferisce alle nuove norme sulla sicurezza sul lavoro?
Ciò che tutela i dirigenti, così come l’impresa, non è soltanto la normativa, sono le procedure. Consiglio sempre di integrare le attività con regole chiare che devono essere seguite. Si pensi alla famosa legge 231, al testo sulla sicurezza o a quello sulla privacy: norme così complesse hanno determinato, ad esempio, l’ingresso in azienda di specifici organismi di vigilanza. Se sono chiari le responsabilità, i compiti, si creano processi di controllo in cui agire ed essere tutelati allo stesso tempo. Questo vale per tutta la catena di dipendenti, non soltanto per il management.
Se sono chiare le procedure, si creano processi di controllo in cui agire ed essere garantiti
E poi ci sono i rischi derivanti dalla diffusione delle nuove tecnologie…
In un momento in cui sono richieste competenze tecnologiche e si decentrano le attività, il paradigma “comando e controllo” deve adattarsi al contesto. Le modalità di lavoro smart working richiedono ai manager grande capacità motivazionale. La questione della protezione dei dati, che con la digitalizzazione ha generato una grande complessità di gestione, impone soluzioni vestite su misura. E le associazioni di categoria possono aiutare a standardizzare le procedure.
Durante il 2020, i nostri associati hanno espresso la preoccupazione per una drastica riduzione della componente variabile della retribuzione. È vero che sta venendo meno il riconoscimento del Mbo?
Il concetto di Mbo è mutato dalla tradizione anglosassone ed è finalizzato a incentivare l’attività del dirigente per poter stimolare il raggiungimento di obiettivi. Nella realtà, ci troviamo spesso di fronte a due diverse visioni: il dirigente considera il Mbo come un diritto, quasi fosse una componente fissa della retribuzione, per le aziende non è necessariamente così. In questi due anni si è posto un problema di carattere oggettivo: la perdita di fatturato. Quindi, pur se il Mbo prevede che l’impresa abbia l’obbligo di dare degli obiettivi, essi hanno carattere eventuale. Dall’altro lato, se l’azienda non chiarisce gli obiettivi, la maturazione del Mbo previsto nel contratto di assunzione va corrisposta.
Possiamo affermare che oggi la nomina a dirigente segue criteri di meritocrazia più che in passato?
Si, possiamo dirlo. Mentre prima prevalevano permanenza e fedeltà in azienda, oggi persone anche molto giovani raggiungono posizioni apicali. Le imprese cercano di attrarre e trattenere il lavoratore capace. Non dimentichiamoci che il loro scopo è quello di generare reddito e che sono fatte pur sempre da persone. Oggi il meccanismo consiste nel finalizzare a promuovere e a far scalare le competenze. Nella pesatura delle posizioni, conta verificare capacità e crescita.
Ci sono strumenti che stanno favorendo il ricambio generazionale nelle posizioni apicali?
Recentemente, lo strumento dell’isopensione è stato molto utilizzato soprattutto nelle imprese di grandi dimensioni. Nei piani riorganizzativi, la possibilità dello scivolo pensionistico è stata di soccorso, ben vista anche da parte dei dirigenti che ne hanno usufruito. L’isopensione ha favorito l’ingresso di dipendenti più giovani, consentendo di trovare il giusto equilibrio tra esperienza e nuove competenze.
Cosa pensa dell’outplacement in sede di conciliazione? È diffuso?
Si tratta di uno strumento ritenuto utile soprattutto dai manager nella fascia di media età, per ricollocarsi ora che il mercato è bloccato. Si riscontra nelle aziende più virtuose, ma non è ancora ben compreso dal dirigente che, nel pacchetto di uscita, di solito è più proteso a monetizzare. Manca ancora una cultura di politica attiva del lavoro. E su questo le Pmi sono più indietro.
I dati Istat hanno chiarito che le risoluzioni hanno riguardato maggiormente le donne, che sono uscite in massa dal mercato del lavoro. È successo anche ai livelli manageriali?
Una fetta preponderante di donne ha subito gravi situazioni di stress a causa della pandemia. La chiusura delle scuole, la Dad, la conciliazione con gli impegni familiari hanno causato un disagio psicologico per tutti, che per le donne è stato più dannoso. Tutto questo ha facilitato le uscite a carico delle donne. A tutti i livelli.
Come si costruisce una maggiore parità tra i generi?
Le differenze di trattamento ci sono, ma è vero anche che negli anni le figure dirigenziali femminili sono cresciute. Con onestà, bisogna ammettere che questa crescita non è favorita. La questione è essenzialmente culturale. Pensiamo al tema del congedo parentale. Io seguo da anni aziende e alta dirigenza: i casi di papà che hanno chiesto il congedo si contano sulle dita di una mano.
Eppure avere qualche obbligo normativo non guasta. La legge Golfo-Mosca, ad esempio, dei risultati li ha portati. Lei cosa ne pensa?
La nostra Costituzione non parla di uguaglianza, ci insegna piuttosto che a parità di situazione devo avere pari tutele. Che bisogna offrire pari opportunità riconoscendo, non azzerando, le diversità. Ora, è anche possibile indurre il cambio di prassi attraverso un obbligo di legge, ma ciò che conta è il cambio di mentalità.
La Costituzione ci insegna che bisogna riconoscere, e non azzerare, le diversità
È quello che in un certo senso ci ha insegnato Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, la prima a portare in tribunale la questione di genere. Le norme servono anche per riconoscere i comportamenti virtuosi e per farli diventare normalità.