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Così vicini, così lontani

L’Inflation Reduction Act statunitense ha messo in crisi l’avvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico, soprattutto in tema di politiche economiche e industriali. Ma per competere insieme è fondamentale ricucire lo strappo.

Da qualche mese a questa parte, le acque tra Washington e Bruxelles in materia di politica industriale si sono fatte nuovamente agitate. Cosa piuttosto sorprendente, se si tiene conto che non più tardi del settembre 2021, il Trade and Technology Council (Ttc) prometteva sforzi congiunti in materia di autonomia strategica e competitività.

L’avvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico su politiche industriali, internazionalizzazione, materie rare, regolazione, friendshoring, rapporto con i Paesi terzi, è stato messo in crisi dall’adozione da parte del Governo Federale di uno dei provvedimenti cardine per riacquisire un ruolo di primo piano nel campo della manifattura e delle tecnologie abilitanti: l’Inflation Reduction Act (Ira).

L’Ira è solo l’ultima di una serie di iniziative, tra cui spiccano l’Infrastructure Act (con 1,2 trilioni Usd nei prossimi 10 anni per le infrastrutture fisiche, energetiche e digitali) ed il Chips Act (280 miliardi Usd per mantenere la supremazia statunitense in materia di semiconduttori). A dispetto del nome, l’Ira è tutto fuorché una politica restrittiva: esso si basa su un complesso meccanismo di crediti fiscali (in parte ancora da definire) particolarmente apprezzato da imprese e investitori perché senza un cap – tanto che dai 391 miliardi di Usd spalmati su 10 anni, previsti inizialmente, Goldman Sachs stima oggi si possa arrivare a ben 1,2 trilioni. Per la cronaca, tenendo presente anche il probabile trascinamento di alcune esenzioni fiscali “temporanee” volute da Trump, il deficit statunitense si incamminerebbe così verso un 7% del Pil.

L’Ira è tutto fuorché una politica restrittiva. Si basa su un complesso meccanismo di crediti fiscali, particolarmente apprezzato da imprese e investitori perché senza un cap

La reazione dell’Unione europea, solo parzialmente stemperata nel corso della visita della Presidente von der Leyen al Presidente Biden, non è stata delle più cordiali: l’Ue ha cominciato a lavorare ad una “risposta strutturale” all’Ira, con un focus sull’adeguamento delle regole sugli Aiuti di Stato per incoraggiare l’investimento in tecnologie verdi e una serie di adeguamenti normativi per aumentare il supporto, a parità di investimento pubblico europeo, verso le produzioni locali ad alta tecnologia. Azioni sviluppate in un contesto in cui il più grande dei Piani di ripresa e resilienza (quello italiano, 190 miliardi su circa 750 complessivi) è sotto stretta osservazione, e in cui le legislazioni nazionali “competono” e talora anticipano provvedimenti come il RePowerUe, il Chips Act Europeo e, recentemente, la Direttiva sui materiali rari. La Germania ha autonomamente deliberato un piano di sussidi su 15 anni per favorire la decarbonizzazione di industrie energivore; nell’ambito dei veicoli elettrici – uno dei settori più sensibili, insieme alle batterie e ai chip – Germania e Francia hanno promosso un piano di incentivi; e anche nel campo dell’innovazione, l’European Tech Champion Initiative punta a far nascere “unicorni” nostrani.

Nel frattempo, l’inflazione (da domanda negli Stati Uniti, da offerta in Europa) continua a correre: le risposte di Fed e Bce sembrano non generare i risultati sperati. Gli Stati Uniti, il Canada ed il Messico stanno divenendo un’area in cui le catene del valore tendono sempre più a integrarsi industrialmente. Il che fa pensare che, almeno nel breve termine, gli Usa, grazie anche all’Ira, continueranno ad attrarre numerosi investimenti strategici – correndo semmai il rischio di una sovrapproduzione generata dalla concorrenza in materia a livello di singoli Stati. La risposta europea sarà sicuramente più complicata per via degli spazi fiscali fortemente asimmetrici tra gli Stati membri: anche se, in generale, lo spaventoso ammontare di debito rispetto al Pil verso il quale gli Stati Uniti si indirizzano, in un contesto di interessi al rialzo e di fragilità del sistema bancario regionale, dovrebbe richiamare anche loro alla prudenza.

Il presupposto da cui, due anni fa, Usa e Ue erano partiti era quello di competere insieme in uno scenario geopolitico caratterizzato da un confronto con la Cina sempre più acceso. Una “sana competizione”, anche a livello transatlantico, tra politiche pubbliche che favoriscano il rafforzamento di settori chiave per la competitività, non può che far bene. Tuttavia, in tempi di incertezza come questi, per assicurarsi un risultato concreto nel medio-lungo periodo, occorre coordinare meglio gli sforzi. Lo slancio espansivo del Nord America può diventare un’enorme opportunità per le imprese europee per esportare – non già trasferire tout-court – competenze, prodotti, servizi e know-how.

Ma occorre recuperare lo spirito del Ttc, favorendo politiche industriali coordinate e co-investimenti nelle aree più strategiche (e se possibile allargando lo spettro di collaborazione anche ad altri Paesi like-minded): diversamente, sarà difficile perseguire l’obiettivo di mantenere, insieme, il primato mondiale in innovazione, tecnologie, produzione energetica, o centrare gli obiettivi climatici nel prossimo decennio. Nel nostro piccolo, con il programma di costituzione del primo Fondo di Investimenti Transatlantico dedicato alle tecnologie strategiche, il Transatlantic Investment Committee, di cui Federmanager è dall’inizio magna pars, sta facendo il suo. Appuntamento, per discuterne, il prossimo 13 ottobre a Washington.

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