C’è chi ritiene che il vento dell’Est sia cambiato e che la Cina stia rivedendo drasticamente la sua politica di shopping estero, con i capitali che rimangono sempre più a Pechino.
Per mappare la geografia degli interessi cinesi nel mondo, abbiamo chiesto lumi a Cesare Romiti che, dall’osservatorio della Fondazione Italia-Cina, ci spiega: «I dati del nostro Centro Studi per l’Impresa ci dicono che, solo nel 2016, sono state completate in Europa acquisizioni per 35 miliardi: un dato triplicato rispetto ai 10 miliardi del 2014.
Gli investimenti strategici per il Paese o per le aziende coinvolte non si fermeranno e, anzi, continueranno a essere tutelati».
Praticamente, dal 2015 a oggi, il gigante asiatico «ha investito all’estero più di quanto abbiano speso in Cina tutti gli altri Paesi del mondo».
Presidente Romiti, dopo un afflusso di denaro verso l’estero così massiccio, come dobbiamo leggere l’attuale rallentamento del mercato di acquisizioni cinesi?
La Cina non ha vietato gli investimenti all’estero, come da più parti si è detto, ma ha solo voluto dare una stretta a investimenti non coerenti con i piani di sviluppo del Paese o delle società coinvolte in acquisizioni all’estero, evitando così le fughe di capitali.
Gli investimenti strategici per il Paese o per le aziende coinvolte non si fermeranno e, anzi, continueranno a essere tutelati.
L’Italia resterà dunque tra i Paesi che attraggono maggiormente investitori cinesi?
Le motivazioni principali di questi investimenti sono, da un lato, la ricerca di nuovi mercati e clientele, ma soprattutto la ricerca di risorse strategiche, tecnologie avanzate, conoscenze specializzate, competenze a livello manageriale, accesso a reti di distribuzione e crescita di reputazione sui mercati internazionali, soprattutto nei settori in cui la Cina ha ancora uno svantaggio competitivo rispetto ai più avanzati produttori europei e nordamericani.
Dobbiamo aspettarci nel breve periodo nuovi ingressi cinesi in società italiane come già avvenuto con Pirelli o con Autostrade per l’Italia?
E’ una domanda da un milione di dollari. Di sicuro, se si vuole perseguire un’attrazione di capitali e multinazionali cinesi, che ha portato sinora a riscontri positivi e opportunità, sarà ancor più necessaria in questa congiuntura una strategia di attrazione degli investimenti “mirata”, un crescente lavoro politico-istituzionale, un alleggerimento di aspetti burocratici e fiscali spesso visti come principale ostacolo.
Per quanto riguarda l’export, il Made in Italy continua a piacere molto a Pechino: quali sono le peculiarità che il nostro Paese è in grado di offrire?
A differenza di quello che si pensa, non sono solo alimentare e lusso ad attrarre l’interesse cinese. Ad avere successo in Cina sono anche, e soprattutto, i nostri macchinari, le nostre macchine agricole e la nostra impiantistica.
Nell’ottica di sviluppo prevista dal piano Made in China 2025, si guarda sempre più a settori come risparmio energetico e protezione ambientale, informatica, biotecnologie, produzione di macchinari avanzati, energie alternative, nuovi materiali e veicoli ecologici. Settori in cui la Cina vuole diventare competitiva. E in questo l’Italia può aiutarla.
I dati dell’export verso la Cina ci dicono che qualcosa sta cambiando, anche se bisogna dire che l’Italia sta reggendo bene a confronto di altri Paesi (nel 2016 l’interscambio ha registrato un calo del 3,17% contro il 6,94% del 2015 sul 2014).
Il segno meno è una naturale conseguenza della “nuova normalità” decisa da Pechino, orientata a far crescere servizi e consumi interni a discapito di investimenti ed export.
La “nuova via della Seta” è un colossale affare da oltre 40 miliardi di dollari: l’Italia è in questa partita o rischia – come ha detto recentemente Romano Prodi – di restarne fuori?
La Belt and Road Initiative è senza dubbio una delle più interessanti iniziative politiche di Xi Jinping.
La realizzazione di infrastrutture e di collegamenti tecnologici, infatti, favoriranno non solo lo scambio delle merci ma anche quello di informazioni, contatti.
L’Italia potrebbe essere coinvolta direttamente dalla direttrice marittima della Nuova Via della Seta: in una prima fase, infatti, le vie d’acqua potrebbero svilupparsi con maggiore rapidità.
Di sicuro il nostro Paese deve giocare con ancor più forza e decisione le proprie carte da un punto di vista diplomatico, senza dare per scontato un suo effettivo coinvolgimento nella Nuova Via della Seta.
La Fondazione Italia Cina si è spesa in prima persona per promuovere e far conoscere il progetto.
Un compito che continuerà a portare avanti grazie anche al suo ruolo di unico referente per l’Italia – insieme alla Camera di Commercio Italo Cinese – del Silk Road Business Council, grazie a un accordo firmato con il China Council for the Promotion of International Trade (CCPIT) lo scorso febbraio nel corso del Business Forum organizzato in occasione della visita del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Dopo un periodo di “appannamento” (ma con risultati che in Italia e in Europa non si vedono dal dopoguerra), l’economia cinese è ripartita. Questa crescita è affidabile?
Il 2017 cinese, dal punto di vista economico, si può riassumere con l’immagine di uno Xi Jinping “equilibrista”, sospeso su un filo nel tentativo di armonizzare riforme e crescita.
Per compiere la transizione verso un modello più sostenibile, dopo l’annunciato New Normal (il nuovo modello economico che prevede una crescita a ritmi inferiori, ma più sostenibile e di maggiore qualità), Pechino deve puntare sempre meno su investimenti a debito, dipendenza da esportazioni di prodotti a basso costo e industria pesante, in favore di una spinta ai consumi interni e di una produzione ad alto valore aggiunto.
Il Fmi ha stigmatizzato il continuo indebitamento cui sta ricorrendo la Cina, un modello che si era già visto con le economie occidentali: si tratta di un eccesso di prudenza o i timori sono fondati?
Sovraccapacità e indebitamento crescente rappresentano oggi le maggiori criticità per il Paese.
Nel 2015 il deficit pubblico è più che raddoppiato rispetto all’anno precedente, segnalando da un lato come l’impatto del New Normal abbia richiesto un crescente indebitamento per garantire gli obiettivi di crescita e, dall’altro, quanto sarà complicato per il governo cinese portare a compimento i propri obiettivi di riforma del bilancio dello Stato.
Se questo è un dato sotto gli occhi di tutti, altrettanto si può dire dell’impegno di Pechino per risolvere il problema: l’operazione di de-leveraging (ovvero di riduzione dell’indebitamento), ad esempio, prevede la chiusura delle aziende zombie in perdita e una ristrutturazione del sistema bancario. Il governo cinese, inoltre, ha avviato una serie di misure per contenere l’indebitamento degli enti locali.
* giornalista