Aurelio Misiti: non osteggiamo le grandi opere

“La manutenzione è un processo, una serie di attività che vengono eseguite sull’opera, sull’impianto, sull’edificio, sul prodotto affinché esso resti il più a lungo possibile vicino alla sua efficienza iniziale, affinché possa rispondere sempre alle esigenze previste al momento della progettazione”. Questa definizione di manutenzione arriva da uno dei maggiori esperti italiani in materia: Aurelio Misiti, con la sua lunga carriera accademica, ha partecipato all’azione di governi passati e ha contribuito a costruire il Comitato nazionale italiano per la manutenzione, di cui oggi è Presidente. La sua adesione alla Commissione Politiche industriali di Federmanager è solo uno degli impegni che assume, convinto che “in Italia va innanzitutto costruita la cultura della manutenzione”.

Professore, cosa è cambiato dal 1990, quando è nato il Comitato nazionale italiano per la manutenzione?

Da quel giorno, era il 4 maggio del ’90, abbiamo puntato l’obiettivo sul superamento della visione particolaristica delle piccole aziende per abbracciare un approccio complessivo alla manutenzione che riguardasse in primo luogo il campo industriale. In altri Paesi già si faceva strada una cultura della manutenzione che interessava la qualità totale dell’industria.

Penso al Giappone, ad esempio, dove si guardava al processo, alla formazione di tutti gli elementi.

Intendevamo quindi trasferire i contenuti dall’estero per migliorare l’attività industriale, sapendo che l’Italia era arretrata, la classe dirigente non aveva maturato la coscienza che si trattasse di una materia meritevole di ricerca universitaria e di leggi per le costruzioni.

Ci sono stati passi avanti da allora?

Per quanto riguarda le opere pubbliche, il Comitato ha fornito all’allora ministro Merloni un’indicazione precisa che fu accolta: tutte le opere pubbliche dovevano prevedere il piano di manutenzione. Oggi è obbligatorio prevedere anche la fonte di finanziamento.

Purtroppo la carenza culturale della pubblica amministrazione, che è molto articolata basti pensare alle 10mila stazioni appaltanti, ha prodotto che la Legge Merloni del ‘94 non trovi attuazione: Asl, Regioni, Comuni hanno sempre formalmente chiesto gli interventi ma poi il finanziamento non viene mai stanziato nella pratica. Prevale ancora la cultura dell’emergenza.

Il rispetto della normativa esistente avrebbe maggiore successo se, come si immagina in queste settimane, si rafforzassero le sanzioni?

La mia esperienza è che le questioni che riguardano questi settori devono evolversi con la cultura e non con le sanzioni. Quando ci sono sanzioni su tutto, non si realizza niente. Piuttosto, sono stati smantellati gli strumenti che erano necessari per migliorare, ad esempio il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il genio civile…mentre si sono ridotti i fondi e il personale, c’è poco spazio per attività propositive.

Cosa potrebbe favorire la proposizione di opere nuove, più sicure e, se possibile, anche più belle?

La cosa positiva è che le Università si sono mosse: in almeno in 20 corsi di laurea ci sono insegnamenti in manutenzione. Dall’industria ai servizi al civile.

Inoltre, con la riforma dell’ANAS del 2011 si è eliminata la stortura per cui lo stesso soggetto era concedente e concessionario. La concedente doveva entrare in un’Agenzia per le strade e le autostrade entro 6 mesi. Non è mai nata. Se la realizzassero sarebbe l’ideale, era una mia proposta.

Cosa pensa del decreto del governo dopo il crollo del viadotto di Genova?

Il decreto mette 250 giovani a controllare, mandando allo sbaraglio dei neolaureati che possono al limite scrivere una relazione. Si parla di struttura straordinaria, ma qui c’è bisogno di costruire bene e di esercitare un controllo di tipo propositivo e protagonista. Chiariamoci: il concessionario lo devi controllare prima, non dopo. Ma il ministero non ha i funzionari, è depauperato di tutto, non c’è la struttura vera che può dirigere le questioni.

È fattibile una mappatura dei ponti e dei viadotti per verificarne lo stato di obsolescenza?

Chi parla di mappatura, confessa la propria ignoranza. In Italia ci sono 80mila ponti e viadotti tra strade, autostrade e ferrovie. Senza contare gli edifici pubblici. È un patrimonio sterminato. Nel 2003 su iniziativa del Comitato è venuto fuori il decreto legge del 28 marzo, poi approvato, che riguardava l’antisismica e che citava i ponti e altre infrastrutture.

Nel 2004 si stabilì che dopo 40 anni qualunque ponte doveva subire la manutenzione straordinaria. Era un’indicazione non obbligatoria. Sui ponti, Ferrovie dello Stato lavora bene, offre una manutenzione molto più sicura di quella sulle strade. In esecuzione di quel decreto del 28 marzo, le 500 dighe italiane sono state visionate tutte e due sono state chiuse, mentre per i ponti e viadotti si è posto il limite dei 40 anni.

Il ponte di Genova ne ha compiuti 51, di anni…

Sì, ha resistito 51 anni ed era un’opera sperimentale. Era progettata per accogliere 7 milioni anno di veicoli. Nel 2017 ve ne transitavano 28 milioni. In ingegneria si dice “sottoposto a fatica”. È un’espressione che parla da sola. Dopo un certo numero di attività un impianto, anche se apparentemente non è arrivato al punto di degrado che ne implica la sostituzione, deve essere sottoposto a manutenzione.

In termini di sicurezza, sono preferibili i piccoli cantieri alle grandi opere?

Sia le grandi sia le piccole opere non presentano rischi se non quelli fisiologici. Noi sappiamo benissimo che non c’è differenza. Anzi, i progetti di grandi opere sono maggiormente studiati per garantire la sicurezza e realizzati con i materiali migliori. Il ponte di Brooklyn o il Golden Gate di San Francisco sono sottoposti a una manutenzione circolare continua. La torre Eiffel sta in piedi per lo stesso motivo. Si fanno cose belle nel nostro Paese ma poi si lasciano cadere.

L’incapacità di preservare le cose belle che abbiamo è una sventura. Sono subculture luddiste quelle che influenzano l’opinione pubblica per osteggiare la grande opera. Piccolo o grande, la questione fondamentale è la qualità di quello che si fa. In questo, ci hanno superato Paesi che poco tempo fa erano dietro a noi.

 *    giornalista e Vice Direttore Progetto Manager