La neuroeconomia, attraverso un approccio interdisciplinare che riguarda la neurofisiologia, la genetica, la psicologia, la filosofia, l’intelligenza artificiale e l’economia, ha rilevato che, quando ci troviamo a dover prendere decisioni nell’ambito di un contesto di rischio (da quelle semplici di tutti i giorni, a quelle più complesse e impegnative legate all’attività manageriale), le nostre risposte non sono legate soltanto alla razionalità, ma risultano fortemente condizionate dalle nostre emozioni.
La neuroeconomia insegna che, di fronte alla scelta, quando è elevata la differenza tra guadagno potenziale e perdita, l’influenza dell’emotività diventa predominante
Il nostro processo decisionale, infatti, è sempre il risultato dell’interazione della funzione cognitiva con quella emotiva. Nell’ambito delle neuroscienze sono state effettuate ricerche che (grazie all’utilizzo della risonanza magnetica nucleare funzionale e della Pet – tomografia a emissione di positroni – attraverso la rilevazione e la misurazione del metabolismo di ben precise aree del cervello), hanno identificato zone della corteccia cerebrale deputate alla valutazione del rischio.
Gino Saladini, psicologo clinico e docente a contratto presso l’università Sapienza di Roma
In particolare sono stati individuati due sistemi chiaramente differenziati. Il primo (sistema 1 o “pensieri veloci” da Daniel Kahneman o “pensiero tacito” da altri autori), individuato nelle regioni limbiche e, con più precisione, a livello dell’ippocampo e dell’amigdala, si è disegnato nel tempo per garantire la nostra sopravvivenza ed è automatico, rapido, in molti casi inconscio, condizionato dagli stati emotivi, legato alla memoria associativa, soggetto a bias cognitivi, cioè a errori sistematici.
Il secondo (sistema 2 o “pensieri lenti” da Daniel Kahneman o “pensiero deliberativo” da altri autori), localizzato a livello della corteccia cerebrale prefrontale, è quello di più recente sviluppo evolutivo nell’uomo ed è la parte del nostro cervello deputata alla razionalità, alla logica e alle analisi complesse. Le sue caratteristiche lo rendono capace, oltre che di pensiero cognitivo-logico, anche di una forma di pensiero creativo, indirizzato all’innovazione e al cambiamento.
Il sistema 2 è più lento del sistema 1, ma è caratterizzato da un numero minore di errori interpretativi. Gli studi effettuati nell’ambito della neuroeconomia hanno rilevato che le aree cerebrali che esprimono la razionalità (sistema 2) hanno un ruolo predominante quando, nella situazione di rischio da affrontare, la differenza tra guadagno potenziale e perdita risulta ridotta, mentre di fronte a una situazione di scelta da fare, quando c’è una differenza marcata tra le due eventualità, quindi per valori che possiamo definire di rischio elevato, diventa maggiore l’influenza dell’emotività (sistema 1).
Appare quindi indispensabile che un manager, per porsi in una condizione neuropsichica ottimale di fronte a una situazione di rischio, debba imparare a gestire al meglio le sue emozioni. Conoscere se stessi, saper gestire gli impulsi irrazionali, motivarsi a un cambiamento da vivere come opportunità, usare le competenze acquisite nel relazionarsi con gli altri. Queste le competenze richieste.
Il mondo del lavoro è in costante e veloce trasformazione, richiede scelte sempre più rapide ed efficaci in contesti di rischio, situazioni in cui la gestione della componente soggettiva delle emozioni è di fondamentale importanza per non incorrere in gravi errori di valutazione. Le emozioni vanno riconosciute, ascoltate, decriptate e poi utilizzate come elemento d’arricchimento del processo logico-deduttivo che deve precedere ogni scelta, per giungere a decisioni innovative e funzionali.
C’è poi da considerare un terzo elemento, sempre più importante nell’analisi del rischio, l’interazione tra il manager e l’intelligenza artificiale (Ai, artificial intelligence). Riferendoci alla classica definizione data da John McCarthy, per intelligenza artificiale, va intesa una macchina in grado di comportarsi secondo modalità che potrebbero essere definite intelligenti ove fosse un essere umano a comportarsi nella medesima maniera.
Studi effettuati dai ricercatori dell’istituto Future of humanity della Oxford university indicano che, nel mondo del lavoro, il ruolo dell’Ai sarà sempre più pervasivo, fino a giungere, nell’arco del prossimo secolo, all’automatizzazione della maggioranza dei lavori espletati attualmente dall’uomo. Chiaramente nei prossimi anni il cambiamento sarà graduale, seppur rapido, ed avverrà dapprima nell’ambito dei lavori e delle prestazioni manuali caratterizzati da ripetitività (cosa già molto evidente oggi), per poi interessare la raccolta e l’elaborazione dei dati, le comunicazioni e, solo da ultimo, essere applicato nel processo decisionale.
Un gruppo di lavoro della Federation of european risk management associations (Ferma) ha recentemente pubblicato uno studio in cui afferma che grazie all’Ai i manager avranno a disposizione un numero sempre maggiore di dati elaborabili e che, grazie all’automazione, saranno in grado di dare risposte sempre più veloci e supportate da informazioni alle nuove ed emergenti aree di rischio. Tale ibridizzazione uomo-Ai potrà permettere al manager, in tempo reale, di effettuare analisi predittive altrimenti impossibili da mettere in essere, correlando cognitività, logica, deduzione, emotività, intuizione e utilizzo dei dati ottenuti grazie all’informatica. Va però sottolineato con forza che il ruolo dell’uomo nel contestualizzare, nel dare interpretazioni, nel comunicare empaticamente e, soprattutto, nel leggere eticamente le situazioni in cui si operano le scelte, non appare sostituibile da nessuna macchina.
L’ibridizzazione uomo-Ai potrà permettere al manager, in tempo reale, di effettuare analisi predittive altrimenti impossibili
In sintesi, le neuroscienze insegnano che il cervello umano è superiore all’Ai quando si tratta di fare delle scelte riferibili a contesti di rischio in cui sono rilevanti gli aspetti etici e sociali. L’intelligenza artificiale è incapace di fornire processi decisionali intuitivi, in quanto è impossibile fornire a una macchina gli input sensoriali e affettivi che il cervello umano è in grado di ricevere, elaborare e confrontare con il proprio patrimonio esperienziale.