Dopo anni di gelo e frizioni, Unione europea e Regno Unito tornano a parlarsi. L’accordo siglato a maggio segna una svolta nei rapporti post-Brexit, rimettendo al centro cooperazione, commercio e difesa.
Per tornare a prima di quel fatidico 31 gennaio 2020, quando la Gran Bretagna uscì dall’Ue, ci potrebbe volere molto tempo. Ma ora ci sono linee guida per rimuovere barriere commerciali e rafforzare la cooperazione in sicurezza e difesa. Vecchie alleanze che ritornano centrali mentre gli Stati Uniti, principale riferimento per entrambi, riducono il loro coinvolgimento dal nostro lato dell’Oceano.
Il risultato è un’intesa strategica che potrebbe aprire nuovi orizzonti alle imprese, anche italiane. «È tempo di guardare avanti», ha detto il premier britannico Starmer dopo l’incontro con Ursula von der Leyen, il primo vertice di questo genere da anni. E avanti vuol dire oltremanica. Secondo l’accordo, prodotti britannici a base di carne potranno di nuovo essere venduti nell’Ue. E poi il capitolo difesa: una partnership per la sicurezza che aumenterà la cooperazione e permetterà di condividere più facilmente risorse e informazioni. Inoltre, l’accordo potrebbe permettere alle compagnie inglesi di partecipare al nuovo programma dell’Ue di prestiti per la difesa.
Tra i punti notevoli, la pesca: l’accordo conferma, infatti, l’accesso dei pescherecci europei alle acque inglesi fino al 2038. In cambio, l’Ue alleggerisce i controlli sulle esportazioni di cibo provenienti dalla Gran Bretagna, che potrà anche tornare a vendere hamburger e salsicce crude nei Paesi europei per la prima volta dalla Brexit. Non solo, però: la Gran Bretagna dovrà accettare di seguire anche le regole europee, che non scrive, e adottarle man mano che cambiano. L’Ue è il principale partner commerciale della Gran Bretagna. Ma con la Brexit, mostrano dati del Governo inglese, le esportazioni del settore agroalimentare sono calate del 21% e le importazioni del 7%.
L’Ue è il principale partner commerciale della Gran Bretagna. Ma con la Brexit, mostrano dati del Governo inglese, le esportazioni del settore agroalimentare sono calate del 21% e le importazioni del 7%
Secondo Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dello Iai (Istituto affari internazionali), l’accordo segna «una chiara volontà di tornare a collaborare, per quanto possibile». La novità più rilevante non è però nelle singole misure settoriali, che pure vanno oltre la logica minimalista del Trade and cooperation agreement, che era stato approvato per regolare i rapporti dopo la Brexit. Bensì, spiega Alcaro «nella creazione di una rete istituzionalizzata di consultazione tra funzionari europei e britannici, in grado di far avanzare la cooperazione quotidiana tra le due sponde della Manica». Un meccanismo apparentemente tecnico che potrebbe rivelarsi decisivo per far emergere nuove proposte politiche.
A favorire questo cambio di passo ha contribuito un contesto internazionale sempre più instabile. «Il triplo shock del Covid, dell’invasione russa dell’Ucraina e della crescente incertezza sul futuro delle relazioni transatlantiche sul piano della sicurezza, con l’avvento di Trump», continua Alcaro. Il nuovo governo britannico del premier laburista Starmer, inoltre, si mostra più pragmatico e meno interessato a difendere pubblicamente le storiche “linee rosse” anti-Ue che avevano portato alla Brexit.
In questa instabilità globale, un altro capitolo chiave dell’accordo è quello su sicurezza e difesa. «L’intesa apre alla partecipazione del Regno Unito agli strumenti di finanziamento europei per lo sviluppo di capacità comuni. Questo crea nuove opportunità per l’industria italiana. Basti pensare al programma per il caccia di sesta generazione, sviluppato congiuntamente da Italia, Regno Unito e Giappone». Insomma -sottolinea Alcaro – si rafforzano legami istituzionali e commerciali importanti per il settore della difesa: «Interessi potenzialmente vantaggiosi per le imprese del nostro Paese».
Ma cosa significa questo nuovo corso per il mondo produttivo italiano, e in particolare per l’agroalimentare, uno dei settori più colpiti dalla Brexit? Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, invita a non sopravvalutare l’intesa, ma riconosce che «la semplificazione delle procedure burocratiche tra Ue e Regno Unito tenderà sicuramente a favorire l’interscambio commerciale». Un interscambio che già oggi vale molto: il Regno Unito rappresenta il terzo mercato per l’agroalimentare italiano, con un export che nel 2024 ha raggiunto i 4,8 miliardi di euro. Il vino è la prima voce (875 milioni), seguito da dolciario, ortaggi, salumi e pasta, tutti sopra i 500 milioni.
Secondo Scordamaglia, il mercato britannico ha risentito dell’inflazione alimentare e della perdita di potere d’acquisto, ma la domanda di prodotti italiani resta forte. Tuttavia, c’è un punto delicato: «Lo scontro politico sull’allineamento dinamico delle regole europee è ancora aperto. I sostenitori della Brexit mal digeriscono l’adeguamento automatico alla normativa Ue, ma Bruxelles è chiara: se vuoi esportare nel mercato unico, devi accettare le sue regole di sicurezza alimentare».
Il rischio, spiega, è che accordi bilaterali del Regno Unito con Paesi terzi – come gli Stati Uniti – introducano standard non compatibili con quelli europei, ad esempio su carni trattate con ormoni. «Questi prodotti non potranno entrare nel mercato comunitario, e l’Europa deve restare ferma sul principio: semplificazione sì, deregulation no, a tutela dei consumatori e dei produttori europei».
Il quadro nei supermercati britannici, aggiunge, è comunque positivo per il Made in Italy: «I prodotti italiani godono di un riconoscimento di qualità premium. La semplificazione doganale che ci aspettiamo con accordi futuri, soprattutto per i beni deperibili, ridurrà i ritardi nei rifornimenti e favorirà la crescita della nostra presenza sugli scaffali».
Infine, un accenno anche al tema della formazione: «Nell’intesa c’è un primo segnale di apertura sulla permanenza di studio e formazione nel Regno Unito. Dopo la Brexit, le restrizioni erano diventate un ostacolo per tanti giovani europei, italiani compresi, che invece sono una risorsa per le imprese. Maggiore flessibilità, anche in questo campo, sarebbe un passo nella giusta direzione».