Professore di Sociologia dell’educazione e di Politiche educative presso l’Università Federico II di Napoli, Roberto Serpieri vanta una lunga carriera e molte pubblicazioni sui temi della scuola, della leadership educativa e della formazione. Con lui abbiamo discusso delle tendenze in atto, della formazione delle nuove classi dirigenti, delle disuguaglianze, degli ambiti formativi e delle competenze necessarie nella società contemporanea. L’impressione è che stia giungendo a compimento un passaggio epocale, un complesso processo di trasformazione iniziato quarant’anni fa. Tra molteplici contraddizioni, la scuola e la formazione hanno seguito i mutamenti sociali…
Roberto Serpieri, Professore di Sociologia dell’educazione e di Politiche educative presso l’Università Federico II di Napoli
Professore, è possibile tracciare sinteticamente le tendenze generali dell’educazione e della formazione nel mondo contemporaneo?
È davvero difficile dare una risposta breve. Innanzitutto, va fatta una distinzione di base. Dallo scorso secolo i sistemi educativi e formativi si sono fortemente differenziati su base territoriale. In Occidente, la distinzione fondamentale riguarda il grado di accentramento o decentramento. Ai due estremi troviamo la tradizione anglosassone e quella francese, di stampo statalista, burocratico-napoleonica, di diritto amministrativo. Due approcci che ovviamente sono andati oltre l’Europa: nel primo caso coinvolgendo Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda; nel secondo, almeno in maniera parziale, realtà come il Canada. Noi, insieme alla Spagna, facciamo parte del secondo insieme, abbiamo dunque un sistema nel quale c’è una forte enfasi sul ruolo della politica, del pubblico che prende decisioni sui destini dei sistemi educativi. Tra questi due sistemi, ce ne sono molti altri che si collocano a metà strada. Ma non è tutto. Va aggiunto che questo quadro si è molto complicato con la globalizzazione. Quando guardiamo all’Asia, all’India, alla Cina, non dobbiamo guardare solo ai fenomeni industriali o della ricerca. Anche lì i sistemi educativi si sono evoluti in modo significativo. Anzi, aggiungerei che molte delle preoccupazioni che gli Stati Uniti hanno cominciato a sperimentare sull’inadeguatezza del loro sistema educativo – preoccupazioni che risalgono agli anni ’70 e ’80 – derivano dall’accorgersi che le performance degli studenti cinesi, in particolare nelle scienze e in matematica, sopravanzavano quelle degli studenti americani.
Questo ha comportato un ripensamento generale?
Negli ultimi quarant’anni abbiamo attraversato cambiamenti epocali. Da un lato una forte ibridazione dei sistemi educativi pubblici e privati, con una contaminazione delle esperienze di formazione tra mondo dell’istruzione e mondo lavorativo in genere. Nel nostro paese, basti pensare ad alcune premesse della riforma dell’autonomia scolastica voluta dal ministro Berlinguer, fino a percorsi recenti di alternanza scuola-lavoro. La seconda tendenza, connessa alla prima, riguarda una progressiva introduzione della logica d’impresa, di profitto. Nelle scuole e nelle università, oltre alle vecchie aziende che vendevano i libri, gli arredi, i materiali scolastici, hanno cominciato a prender piede le nuove tecnologie. Dal ’90 in poi, attraverso l’influenza di internet e del web 2.0, nei sistemi educativi hanno fatto ingresso le tecnologie, in particolare i software di supporto alla didattica.
Assistiamo a una forte ibridazione dei sistemi educativi pubblici e privati, con una contaminazione tra mondo dell’istruzione e mondo lavorativo
Dunque come si formeranno le future classi dirigenti?
Un fenomeno importantissimo l’hanno svolto i Mooc, i Massive open online courses (corsi aperti per formazione a distanza attraverso la rete, ndr). Lanciati da prestigiosissime università americane, hanno rappresentato una sfida alla formazione del futuro, anche perché la logica del web li ha voluti free, ovvero non a pagamento. Certo, poi bisogna pagare se si vogliono delle certificazioni che attestino le competenze conseguite. In questo senso l’Europa è ancora molto indietro. Tuttavia in Italia l’Università Federico II ha introdotto il centro di web learning “Federica”, il primo nel nostro continente e tra i primi dieci nel mondo. Nei Mooc sono impegnate università e grandi imprese per la distribuzione.
I Mooc, lanciati da prestigiosissime università americane, sono corsi aperti fondamentali per la formazione delle future classi dirigenti
Se è così, devo allora chiederle “dove” si formeranno le nuove classi dirigenti…
C’è un altro fattore enorme di cambiamento. L’attuale pandemia di Covid-19 ci ha preso tutti un po’ alla sprovvista e messo in difficoltà, ma paradossalmente ha rappresentato un fattore di accelerazione per il sistema di istruzione e formazione. Se prima, in base alle proprie competenze, si poteva semplicemente convivere con le nuove tecnologie, oggi possiamo dire che non si può più prescindere dalle nuove tecnologie. Come italiani dovremmo essere molto fieri. Per una mia ricerca, ho sondato diversi rettori delle nostre università su questo tema. Da noi nessun ateneo ha chiuso, anzi, come invece hanno fatto altri anche molto prestigiosi in Inghilterra o Stati Uniti. Il “dove” è sempre meno fisico, è legato ai luoghi virtuali. Questa sfida sarà molto significativa soprattutto per le università anglofone abituate a importare tanti studenti dal sud est asiatico.
Viviamo nel contesto di una società che si dice abbia bisogno di formazione continua. Secondo lei è un modello sociale sostenibile? Fino a quale età è possibile formarsi in maniera proficua?
Occorre andare a confrontarsi con le realtà particolari. I modelli sono tanti e scelte univoche è difficile farne. C’è un tema che a me sta a cuore, quello della post educazione. Fondamentalmente le opportunità di educazione non stanno più dentro scatole dai confini precisi. All’inizio del 1970, Ivan Illich scrisse un libretto dal titolo “Descolarizzare la società”. Sosteneva che i sistemi educativi nelle società economicamente avanzate si sarebbero dovuti evolvere secondo una logica di rete, ovvero di opportunità di educazione e formazione diffuse sul territorio. Tenga conto che quando scriveva non esisteva il web. Insomma, oggi, senza esagerare, si può fare relativamente a meno dei luoghi deputati all’istruzione in senso formale. Questo da un lato rappresenta una grande opportunità e una sfida ad alcune ingessature dell’istruzione; dall’altro pone un problema di equità sociale: sappiamo bene che riesce nella formazione di capitale umano chi già in partenza gode di una dotazione di capitale culturale, economico e di relazioni sociali.
Esiste un problema di equità sociale: riesce nella formazione di capitale umano chi già in partenza, vanta una dotazione di capitale culturale, economico e di relazioni
Quello delle disuguaglianze non è un rischio già presente?
L’apertura di canali oltre quelli istituzionali formali rischia certamente di avvantaggiare chi ha accesso a tali informazioni prima degli altri. È un problema complesso perché occorre vedere in che modo si sviluppa nei confronti dei gruppi, dei ceti, delle generazioni più svantaggiate. Gli adulti e gli anziani sono di per sé indietro per la minore dimestichezza con i mezzi per cui oggi passa la formazione.
Su quali ambiti formativi puntare nel prossimo futuro?
Da almeno venti o trent’anni nel mondo c’è una svolta verso gli obiettivi dell’educazione. In particolare c’è una specie di dualismo conoscenza-competenze. Ipotizzando che l’obbligo dei sistemi formativi sia sempre meno quello di garantire la trasmissività della conoscenza quanto piuttosto la dotazione di competenze. E dentro il mare magnum di quest’ultime, si stanno affermando quelle che vengono chiamate “meta-competenze”, “competenze trasversali”, “soft skill”, ovvero competenze che riguardano l’area dell’emotività e dell’affettività; voglio citare a tal proposito un volume che approfondisce questo aspetto: “Le competenze, una mappa per orientarsi”, scritto da un team di ricercatori guidato dai professori Benadusi e Molina per la Fondazione Agnelli. Si parla spesso di “imparare ad imparare”, cioè rendere i soggetti dalla scuola all’età adulta in grado di essere attivatori di un percorso di formazione nel quale le vecchie agenzie di formazione (insegnanti, professori, centri di formazione) dovranno essere soprattutto strumento di supporto, di coaching, mentoring, monitoring della persona in formazione.
E questo basta?
Sto rappresentando delle tendenze, su tutto questo c’è anche un forte pensiero critico. Un famoso sociologo dell’educazione, Gert Biesta, ha parlato di learnification, cioè il fatto che l’apprendimento prende il posto della docenza, riconfigurando le competenze di chi fa formazione: da trasmettitori di competenze a supporter-attivatori di percorsi di autoformazione.
Andando sul concreto, è possibile oggi prescindere dalla formazione linguistica e di dimensione almeno europea?
Sicuramente no. E qui torniamo al ruolo delle istituzioni, anche quelle europee. Tutti i programmi di scambio come l’Erasmus devono a mio avviso essere rinforzati. Per un po’ dovremo fare i conti con una minore mobilità a causa del Covid, ma dobbiamo incoraggiare e rafforzare queste modalità di apprendimento. D’altra parte anche lo studente di valore che vuole formarsi assemblando i Mooc, mica può farli tutti in italiano. Sulla lingua sono decenni che il nostro paese è carente ed esistono dei limiti sui quali bisogna riflettere.