A lezione da Confucio

L’Asia non si ferma e vuole primeggiare anche nella formazione manageriale, assecondando la crescita delle sue poderose economie. Ecco come l’Oriente sta attraendo il mondo

Vari parametri permettono di soppesare i nuovi equilibri economici mondiali. La crescita del Pil è certamente il più scontato, ma non l’unico. Prendiamo il settore della formazione manageriale, fino a poco tempo fa emanazione di un ordine globale a trazione americana. Quando si parla di Master in business administration oggi Stati Uniti e Gran Bretagna non sono mete più così scontate. Un insolito protagonismo asiatico si fa largo nelle recenti classifiche del Financial Times, che ogni anno valuta la qualità degli Mba in base alle prospettive di carriera e allo stipendio percepito dagli studenti una volta entrati nel mondo del lavoro.

Se nel 1999 l’Asia era completamente assente dalla top 50, oggi il continente – dove il primo Mba è stato introdotto nel 1955 a Karachi (Pakistan) – occupa in tutto 13 posizioni. Quattro sono gli istituti inclusi nelle prime 20: la China Europe International Business School (Ceibs), la Hong Kong University of Science and Technology (Hkust), la National University of Singapore (Nus) e il campus singaporiano dell’Institut européen d’administration des affaires (Insead). Fuori concorso, ma altrettanto blasonata è la Cheung Kong Graduate School of Business (Ckgsb), alma mater del patron di Alibaba, Jack Ma, fondata a Pechino dal magnate hongkonghese Li Ka-shing.

Uscendo dall’area di influenza cinese, anche l’India prosegue la sua scalata facendo leva su una tradizione consolidata a partire dalla fine degli anni ’50 quando, ottenuta l’indipendenza, la rapida espansione del comparto industriale richiese la formazione di manager specializzati. Il secondo paese più popoloso del mondo ha ormai raggiunto il 27° posto grazie alla performance dell’Indian Institute of Management Bangalore, tra le business school più competitive al mondo, con un tasso di accettazione bassissimo: appena l’1% sul totale dei candidati.

Mentre le scuole americane restano salde al vertice, nel 2018, le iscrizioni negli States hanno registrato un calo del 6,6% laddove i competitor asiatici hanno totalizzato un 8,8% di domande in più rispetto all’anno precedente. Una crescita trainata soprattutto dagli studenti internazionali, aumentati del 15,4% – a fronte di un crollo del 10% negli Usa – come confermano i numeri della Nus, dove ben l’88% degli iscritti proviene da oltremare. Ma non solo. Secondo il Graduate management admission council, lo scorso anno il 48% delle business school asiatiche prese in esame ha riportato un aumento delle richieste provenienti dal mercato interno. Un dettaglio da non sottovalutare.

Nel 2018, le iscrizioni negli States hanno registrato un calo del 6,6% mentre i competitor asiatici hanno totalizzato un + 8,8% rispetto all’anno precedente

Si tratta, infatti, di un trend che implica una rottura rispetto al trentennio appena concluso, quando la classe media del continente ambiva a un’educazione di stampo occidentale, status symbol e trampolino di lancio verso la Silicon Valley. Negli ultimi anni, Sudest asiatico e Asia Orientale hanno visto moltiplicarsi il numero degli istituti internazionali; più di 857 solo in Cina. Complice la necessità di trovare una valida alternativa al massacrante sistema di matrice confuciana. Ma, come dimostrano le graduatorie più recenti, le cose stanno cambiando. E la postura protezionistica di Trump c’entra solo fino a un certo punto. Nuove esigenze endogene ed esogene stanno spingendo le metropoli asiatiche a offrire soluzioni autoctone.

Mentre, oltre la Grande Muraglia, l’inversione di marcia risponde parzialmente al diktat del partito/Stato – fautore di una rinascita culturale e valoriale “con caratteristiche cinesi” – alcune tendenze interessano trasversalmente il continente.

Partiamo da un dato di fatto: l’economia mondiale si è spostata a Oriente. Tra il 2017 e il 2019, la Cina ha contato per il 35,2% della crescita mondiale – più di Stati Uniti ed Europa messi insieme – e nel 2030 l’Asia Pacifico ci si attende rappresenterà il 40% del Pil globale, con intuibili benefici in termini di prospettive lavorative. Ospitando il 55% degli utenti internet e il numero più elevato di “unicorni”, l’Asia viene inoltre considerata la culla dell’industria It mondiale, uno dei principali settori di sbocco per chi consegue un Master in business administration. Non per nulla, negli ultimi anni, molte multinazionali – da Twitter a Linkedin – hanno optato per istituire una sede centrale regionale, con Singapore, Hong Kong e Shanghai in cima al podio delle città più rappresentative.

Secondo le statistiche, puntare sul continente si dimostra spesso una scelta vincente: i corsi asiatici sono mediamente forieri di carriere brillanti e ben retribuite. Il 94% di chi ottiene un Mba alla Nus trova lavoro entro tre mesi dalla fine degli studi e ottiene nell’arco del cursus honorum un incremento salariale del 131% rispetto al 102% dei diplomati presso la London Business School. A ciò si aggiungono considerazioni politiche ed economiche. Non solo studiare in un’università statale spesso aiuta a coltivare quelle relazioni interpersonali che nei paesi d’influenza confuciana (come Cina, Giappone e Coree) facilitano non poco l’ascesa professionale. Potendo attingere a sussidi governativi, molte scuole asiatiche risultano anche meno dispendiose ma qualitativamente competitive grazie al coinvolgimento di docenti già affermati in occidente. Secondo stime del Financial Times, 18 mesi alla Ceibs costano 62.600 dollari rispetto a una media mondiale di 86.000 dollari.

Il 94% di chi ottiene un Mba alla National University of Singapore trova lavoro entro tre mesi dalla fine degli studi, ottenendo un incremento salariale del 131%

Nate come cloni degli Mba anglosassoni, negli ultimi anni le business school asiatiche hanno cercato di adattare metodologie consolidate a livello internazionale al contesto regionale, ponendosi come cinghia di trasmissione tra Est ed Ovest. Un approccio ben diverso dal modo di fare formazione nel Nuovo e nel Vecchio continente, dove i programmi vertono ancora principalmente sull’analisi dei mercati occidentali.

In Cina, per esempio, i corsi cominciano ad affrontare nello specifico tematiche di interesse locale, come il fintech e la tutela della proprietà intellettuale. Nelle aule della Ceibs non solo si studiano le “guanxi”, gli “agganci” interpersonali imprescindibili per fare affari nell’ex Celeste Impero. Anche la “Belt and road”, la cintura economica lanciata da Pechino tra Asia, Africa ed Europa, è diventata materia d’esame, tanto che già da diversi anni, l’università di Shanghai gestisce un campus ad Accra, nel Ghana, per formare i vertici delle aziende cinesi presenti nel Paese. E se case study, come Huawei e Alibaba, sono comprensibilmente diventati oggetto d’analisi sui banchi della Hkust, meno scontata è l’inclusione di materie umanistiche nei programmi della Ckgsb, dalla storia cinese antica alla filosofia confuciana. In questo, l’offerta degli Mba della Greater China ambisce piuttosto chiaramente a rimpiazzare il tradizionale sistema formativo americanocentrico. Ma la strada è ancora lunga.

Mentre la middle class asiatica comincia a optare per soluzioni a breve distanza, i rampolli dell’establishment politico sembrano ancora preferire gli Stati Uniti. Se il figlio dell’ex premier cinese, Wen Jiabao, ha conseguito un Mba alla Kellogg School of Management di Chicago, Chen Xiaodan, la nipote di uno degli “otto immortali” del Pcc, ha studiato business administration ad Harvard, la stessa università presso cui si è laureata la figlia del presidente Xi Jinping.

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