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Made in, ritorno in passerella

Non solo grandi brand. La moda italiana è viva e vivace grazie a piccole imprese eccezionali che si stanno attrezzando per reagire alla seconda pandemia, quella economica. Intervista a Paolo Bastianello

Il made in Italy soffre, gravato dalla flessione degli ordinativi, dal blocco della produzione, dalle barriere che il coronavirus ha alzato al commercio globale. L’industria della moda non è solo grandi brand. Le sfilate non sono altro che l’ultimo, sfavillante tassello di una filiera molto più lunga. Alle spalle c’è un tessuto produttivo vastissimo, radicato nella tradizione italiana, che si compone di eccellenze di piccole e medie dimensioni che, messe in filiera, hanno reso unica l’Italia nel mondo.

Paolo Bastianello, vicentino doc, ha nel sangue la tenacia degli alpini. E ha le idee chiare. Dice che le previsioni calcolano un calo del 30% dell’export, ma sono stime prudenti. Si riferisce ai 7 settori di punta della moda italiana: tessile-abbigliamento, oreficeria, calzature, concia, pelletteria, pellicceria e occhialeria. Praticamente tutto ciò che indossiamo.

Paolo Bastianello, imprenditore, componente di Sistema moda Italia, a capo del gruppo tecnico Made in di Confindustria. È nel Cda di 4.Manager e nel board del Politecnico calzaturiero del Brenta

Bastianello è anche un esponente di lungo corso di Confindustria, dove presiede il gruppo tecnico Made in. È presidente del comitato education di Sistema moda Italia e membro del Cda di 4.Manager, l’associazione condivisa tra Federmanager e gli industriali per la promozione di una nuova cultura di impresa e per le politiche attive del lavoro.

Dal suo osservatorio privilegiato, avverte: «Il nostro paese ha sempre dimostrato una grande capacità di reazione di fronte all’emergenze. Nel caso del Covid-19 non sta facendo da meno. Sono tantissimi gli imprenditori che si sono rimboccati le maniche, hanno riconvertito le produzioni. Nelle prime settimane di marzo – racconta – ho personalmente telefonato a tanti di noi chiedendo una mano, chiedendo di iniziare a produrre mascherine, camici, calzari, tutto ciò che servisse. La risposta è stata straordinaria. Le nostre imprese hanno prodotto gratuitamente materiale necessario per far fronte all’emergenza, dimostrando non solo flessibilità e capacità di reazione, ma un grande amore per questo paese».

Mascherine, camici, calzari. L’industria della moda ha prodotto gratuitamente tutto ciò che serviva nei primi giorni di emergenza

Subito dopo la prima emergenza, sono arrivati i decreti, le normative regionali, le circolari. Un corpo legislativo stratificato in cui, alla vigilia della cosiddetta “fase 2”, si fa fatica a districarsi. Con quali conseguenze? «È impensabile poter reagire quando, per ottenere 25 mila euro di prestito, bisogna riempire una ventina di documenti diversi. Dovrebbe essere prioritario mettere al centro il mondo del lavoro, i giovani, le imprese. Sburocratizzare, liberare liquidità, e soprattutto ristabilire il rapporto di fiducia tra lo Stato e i cittadini, che però devono rispettare le regole. Bisogna avere meno norme, ma rispettarle un po’ di più».

Ma l’industria della moda, nonostante tutto, è pronta a partire? Rivela, Bastianello, che in realtà la fabbrica ha ripreso a lavorare.

«Ha già riaperto, come da istruzioni governative e attenendosi a tutti gli obblighi di sicurezza, perché si tratta di un settore strategico per la salvaguardia dell’export. Il mondo della moda è stagionale. Dobbiamo recuperare i grandi ritardi di questi mesi di stop, lavorare già alle collezioni della primavera-estate 2021. Se si salta una stagione, potremmo non aver modo di recuperare. Il fattore tempo è cruciale».

Infatti, questa parte di made in Italy è sottoposta a una agguerrita competizione internazionale. L’industria della moda coinvolge 600 mila persone che lavorano nelle aziende associate e producono circa 95 miliardi di fatturato, pari a quasi il 5% del Pil. Di questo fatturato, oltre i due terzi è export. E se si sono fermati i compratori, Cina, Giappone, Stati Uniti, la produzione non ha fatto altrettanto in Paesi che sono diretti competitor del made in Italy, come la Cina stessa, la Spagna, la Germania, la Turchia.

«Nulla a che vedere con il livello qualitativo della produzione italiana – specifica Bastianello – ma capiamo che quando c’è una crisi, il primo settore colpito è quello dell’abbigliamento, perché è un bene fluttuante. La Russia, per il semplice fatto che sta affrontando la crisi del prezzo del greggio, semplicemente non compra più. Abbiamo i nostri prodotti in giacenza nelle dogane. Perciò, bisogna dire la verità ai consumatori. Spiegare loro qual è il valore del prodotto italiano».

A questo punto, si fanno largo politiche protezionistiche, gli inviti al consumatore nostrano a comprare solo italiano, come pure si sta proponendo in alcune comunicazioni pubblicitarie. «Forse può funzionare nell’agroalimentare, dove le campagne in difesa dei prodotti italiani possono influenzare il mercato. Ma non funziona per la moda, che è costruita sulle catene globali del valore. Sarebbero di gran lunga preferibili operazioni contro l’italian sounding, che ci costa 90 miliardi di euro, o per la trasparenza nella tracciabilità di tutte le fasi di produzione e sull’origine del prodotto».

Oltre all’allentamento del lockdown, lunedì 4 maggio ci sarà anche un’altra novità. Avverte l’imprenditore vicentino: «Scadrà la moratoria sui crediti, quindi tutti i titoli che erano stati congelati diventeranno nuovamente esigibili. E assisteremo a una grave crisi di insolvenza».

«È bene che i soldi arrivino. Meno bene pretendere che si possa rientrare dai finanziamenti in sei anni. Le nostre imprese si preparano ad affrontare due anni in perdita. Non ne basteranno altri quattro per restituire i prestiti».

Quindi, se i soldi che stanno arrivando non sono la panacea, perché sono tutti a debito e vanno restituiti in tempi record, secondo Bastianello l’unica soluzione sono «contributi a fondo perduto». «Bisognerebbe riconoscere che l’impresa non è male minore e che il lavoro deve essere al centro delle politiche», spiega.

Come fare in concreto? «La strada da seguire si chiama aggregazione. Da soli non si va da nessuna parte. Bisogna unire le forze, costruire contratti di rete. Sarà fondamentale managerializzare l’impresa».

La strada da seguire è quella dell’aggregazione: imprese più grandi e più managerializzate. Da soli non andiamo da nessuna parte

«Avremo bisogno di imprese di dimensioni più grandi, più forti e più competitive – conclude Bastianello -. La creatività e l’impegno della classe imprenditoriale italiana, supportati da una opportuna delega al management, sono la ricetta per la ripresa della nostra economia».

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