L’immaginario italiano del Primo Maggio è finito per coincidere con quello del cosiddetto “concertone” di Roma. Nata per ricordare i fatti di Chicago del 4 maggio 1886, quando il confronto tra polizia e operai che scioperavano per ottenere le 8 ore di lavoro costò la vita a 11 persone a Haymarket Square, la giornata internazionale di mobilitazione per la riduzione dell’orario di lavoro si celebra dal 1889 ed è oggi festa nazionale in circa 90 paesi al mondo.
Tiziano Treu, presidente Cnel
Dal lato dell’impresa c’è una dimensione del Primo Maggio poco conosciuta, una particolarità fondativa che forse aiuta meglio a comprenderne il senso contemporaneo.
È curioso infatti osservare che la sua origine più lontana non abbia a che fare con il luddismo operaio o il rifiuto della modernità, ma sia piuttosto legata alle iniziative di un industriale tessile: Robert Owen. Nella Gran Bretagna dei primi decenni dell’ottocento, fu infatti Owen il primo a ridurre l’orario di lavoro a 10 ore e mezza (se ne lavoravano 15 o 16), dimostrando con i fatti che questo provvedimento non avrebbe posto fuori mercato il suo stabilimento di New Lanark. Siamo tra gli anni ’20 e ’30, quando il lavoro salariato era il modo assolutamente minoritario di mantenersi della popolazione europea, ed è significativo che la faccenda di Owen (un filantropismo che andava nella direzione di preservare i minori dal lavoro e creare una rudimentale rete di welfare per i suoi operai) contenga molti degli stilemi delle più innovative storie industriali che hanno punteggiato i secoli fino a noi.
Oggi, a valle di duecento anni di storia e di mutamenti epocali, i lavoratori salariati sono passati dai pochi milioni della prima rivoluzione industriale a quota 3 miliardi e 300 milioni, 760 milioni dei quali addetti all’industria.
È stato necessario un viaggio lunghissimo affinché l’impresa capitalistica e il lavoro dipendente diventassero il modello produttivo egemone nel mondo: una svolta tutto sommato recente, se si pensa che ancora negli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, il lavoro salariato non andava oltre il 44% del totale degli attivi (1991), cifra che solo nel 2019 è approdata al traguardo del 52,7%. Ma c’è di più. Analizzando i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e della Banca Mondiale, sembra esserci una correlazione diretta tra la capacità di performance dell’economia di un paese e la percentuale degli attivi inquadrati con contratto a salario. Per una media Ue dell’85,3, abbiamo infatti la Germania al 90,2%, la Francia all’88,4%, la Norvegia al 93,5%, la Danimarca al 92% e, per contro, la Grecia al 66,6 e l’Italia al 77,1. Senza poi parlare di realtà come Stati Uniti (93,8), Hong Kong (91,6) e Giappone (89,8).
Esiste una correlazione diretta tra la performance dell’economia di un paese e la percentuale degli attivi inquadrati con contratto a salario
«Sicuramente nei paesi dove il rapporto di lavoro è più “sicuro”, l’economia è più solida», commenta a tal proposito Tiziano Treu, presidente del Cnel, giuslavorista e accademico. Per poi chiarire: «Quando parlo di lavoro mi riferisco sia al lavoro subordinato sia al lavoro autonomo vero. Il problema nel nostro Paese è che troppo spesso i rapporti di lavoro autonomo sono lavori subordinati mascherati, il cosiddetto popolo delle finte partite Iva. Questa distorsione, tutta italiana, risponde a due ragioni principali: abbassare il costo del lavoro e facilitare le risoluzioni. Questo sistema ha creato molto precariato nel nostro Paese, specialmente tra i giovani che con estrema difficoltà riescono a progettare il loro futuro. L’incertezza non è mai amica dell’economia».
Insomma, là dove c’è un forte comparto del lavoro dipendente e inquadrato, sembra anche esserci più produttività e innovazione. Senza contare che ormai questa enorme massa critica di lavoro è persino diventata soggetto attivo nelle politiche industriali e nel mercato dei capitali. È noto, ad esempio, il ruolo dei fondi pensione americani nella vicenda Fiat-Chrysler o, ancora più recentemente, in quella Fca-Peugeot.
Molto meno noto è il lato dimensionale – dunque persino politico – di questi giganti finanziari. CalPERS, il fondo pensione dei dipendenti pubblici della California, amministra 372 miliardi di dollari; quello degli insegnanti circa 230 miliardi, quello degli ex dipendenti della Boeing circa 125, quello degli impiegati pubblici dell’Ohio più di 100. E così via. A tutt’oggi, solo negli Stati Uniti, i fondi pensione dei lavoratori americani gestiscono un portafoglio di quasi 16 mila miliardi di dollari (10 volte il Pil italiano), una cifra che raggiunge i tre quarti del Pil nazionale e che a livello Osce supera largamente i 27 mila miliardi.
I fondi pensione dei lavoratori americani gestiscono un portafoglio di quasi 16 mila miliardi di dollari, pari a 10 volte il Pil italiano
L’Italia, con poco più di 150 miliardi di euro, è molto lontana da queste tendenze. E una ragione c’è: «I fondi previdenziali hanno il principale obiettivo di garantire la pensione ai lavoratori. Quindi quando si fanno investimenti occorre che siano sicuri. Nella gestione degli investimenti occorre tenere un rigoroso rispetto di regole di prudenza, definite per legge. Le regole devono tener conto della finalità previdenziale e non speculativa dell’investimento stesso», sottolinea sempre Tiziano Treu. Chiarendo infine: «Gli investimenti possono essere orientati a sostegno dello sviluppo locale con un positivo impatto su società e ambiente. È necessario scegliere di investire in economia reale che qualificano la crescita. In passato sono state previste agevolazioni fiscali su questo tema». Un’osservazione del tutto pertinente se si pensa al fatto che molti di questi fondi, in epoca Covid-19 e crolli borsistici, sono significativamente esposti sui mercati.
Insomma, capitale e lavoro continuano a prendersi le misure da fronti opposti, ma dal secondo punto di vista la faccenda si è stratificata e molto complicata. Da una parte c’è un comparto del lavoro avanzato e produttivo che arriva ad invadere il campo opposto. Dall’altra c’è una classe di sfruttati che, su scala asiatica o africana, guarda alla nostra modernità come a un punto d’arrivo. Mutatis mutandis, la storia si ripete.