Nel nostro cervello ci sono 100 miliardi di neuroni, ognuno dei quali è collegato agli altri da 100 mila sinapsi. Il numero di connessioni di cui il nostro cervello dispone è probabilmente molto superiore al numero di galassie dell’universo. Queste connessioni danno vita a pensieri, emozioni, idee.
Un neurone accoglie una certa quantità di energia come input; quando raggiunge una soglia di attivazione si accende come fosse una lampadina, liberando a sua volta una certa quantità di energia in output, che viene chiamata “potenziale di azione”. Pensieri, emozioni, idee, appunto. Che oggi possono diventare contenuti virali.
Come mai adesso parliamo di “viralità” dei contenuti? Perché l’approccio è proprio quello epidemiologico: è la nostra interconnessione a far sì che le idee possano essere trasferite e, se hanno sufficiente forza da attivare ciascuno di noi il propagarsi nelle nostre reti sociali, diventare efficaci traducendosi immediatamente in azioni.
Grazie alla Rete e ai social media, chiunque può diventare focolaio di un’idea, di un’opinione e di qualcosa che può andare a incidere sulla reputazione anche delle più grandi organizzazioni del pianeta.
Il concetto alla base consiste nel raggiungere quello che viene chiamato “punto critico”: superata una certa soglia, un comportamento si manifesta e diventa virale. Con i social network in primis, ma in generale con il web, questo punto critico può essere raggiunto in qualunque momento grazie a cambiamenti impercettibili: può essere l’opinione di una singola persona, che una volta poteva essere gestita nel contatto diretto e oggi invece trova sfogo online; può essere l’articolo giornalistico che ha una diffusione meno importante di altri, ma che dà il via a un dibattito che in breve tempo si trasforma in una cassa di risonanza molto più ampia.
Basta un comportamento impercettibile per scatenare sul web una cassa di risonanza molto ampia
La soglia di attivazione di questo punto critico si è abbassata moltissimo e noi lo viviamo quotidianamente, per lo sviluppo delle reti. Con la globalizzazione delle reti si scambiano fondamentalmente tre cose: dati, informazioni, conoscenza. E la conoscenza, quanto più aumentano i punti di rete, tanto più diventa abbondante.
La differenza fra una conoscenza buona e una conoscenza non buona – ammesso che esista una conoscenza non buona – è data esclusivamente dalla reputazione, di cui la conoscenza diventa il fattore produttivo dominante.
Nel mio libro Reputazione capitale del terzo millennio spiego proprio perché oggi la reputazione non rappresenti soltanto il driver migliore per le strategie di business di un’impresa, ma costituisca lo strumento che offre la migliore sintesi dell’efficacia delle politiche intraprese, oltre che la migliore predittività per la sua capacità di adattarsi e sopravvivere nel futuro.
Questi principi di marketing basati sulla reputazione corrispondono a una visione di comunicazione improntata sull’interazione, sulla fiducia o, per dirla in termine tecnico, sul self-branding.
Ovvero, tutto va trattato come se fosse un brand, un marchio, un logo, anche se non ha una valenza esclusivamente commerciale. Insomma, oltre al nostro lavoro, non dobbiamo mai smettere di ricordare chi siamo, cosa facciamo, in cosa ci differenziamo e, non ultimo, cosa le persone dicono di noi.