L’invecchiamento della popolazione e il rallentamento dell’economia globale hanno riacceso il dibattito sulle pensioni anche in Germania, da sempre considerata tra le nazioni più virtuose in tema di welfare. 65 anni e 8 mesi con almeno 5 di contributi: è questo l’identikit di un lavoratore che al momento può accedere alla pensione di vecchiaia ordinaria tedesca. Un’età pensionabile che sta crescendo gradualmente a partire dal 2012 e che, di questo passo, raggiungerà i 67 anni dell’Italia, ma non prima del 2029. Ferme restando queste condizioni, esistono però varie possibilità di ritiro anticipato con una riduzione dell’assegno dello 0,3% per ogni mese in meno maturato.
I tedeschi quindi, vanno in pensione prima, ma – età a parte – quali sono le differenze più significative con il sistema previdenziale di casa nostra? Facciamo subito chiarezza su alcuni aspetti: il meccanismo di calcolo si basa sui cosiddetti “punti-pensione“, acquisiti nel corso della vita attraverso il pagamento dei contributi e conteggiati anno dopo anno, mettendo a confronto lo stipendio con la media delle buste paga di tutti i contribuenti. In questo sistema “pay-as-you-go” – che come da noi è interamente finanziato dal gettito fiscale e dai contributi che confluiscono nell’Ente omologo del nostro Inps – esiste un punteggio minimo e uno massimo che può essere accumulato.
Come sottolineato dal rapporto “Pensions outlook 2018” dell’Ocse, i lavoratori tedeschi versano per la propria pensione il 18,7% dello stipendio lordo mensile (a fronte del nostro 33%), a carico per metà del dipendente e per metà del datore di lavoro. Questa aliquota viene calcolata su tutte le retribuzioni entro una soglia fissata a 6.500 euro. L’eventuale parte di reddito che supera questo limite non viene calcolata né per il pagamento dei contributi né per l’accumulo di punti per la pensione futura. Con quale risultato? «Alla luce del sistema di calcolo – ha spiegato a Progetto Manager Tobias Piller, economista e corrispondente di Frankfurter Allgemeine Zeitung – gli assegni più alti, dopo 40 anni di contributi versati, ammontano a circa 2.300 – 2.500 euro, anche se gli importi minimi sono comunque più generosi di quelli italiani». Almeno per quanto riguarda i dipendenti privati.
La pensione tedesca corrisponde in media al 48% dell’ultima busta paga, una percentuale tra le più severe; la previsione è che nel 2020 si arrivi al 46% e nel 2030 al 43%
Più fortunati sono, invece, i lavoratori della Pubblica amministrazione, i quali ricevono delle pensioni mediamente più generose, perché calcolate sulla base delle retribuzioni nell’arco della vita professionale. Essendo, però, solo il 10% del totale degli attivi, hanno uno scarso impatto sulla spesa nazionale per la previdenza. Nel 2017, ad esempio, delle 1.263.920 persone a cui lo Stato ha erogato l’assegno previdenziale (tutte le altre erano coperte da assicurazioni private), appena l’1,1% ha percepito una cosiddetta “pensione d’oro”. Per questo, in Germania, è ampiamente diffusa e molto efficiente la previdenza complementare, che rappresenta il secondo pilastro su cui si fonda il settore e alla quale i cittadini si affidano per avere una vecchiaia più sostenibile.
La pensione, infatti, corrisponde in media al 48% dell’ultima busta paga, una percentuale tra le più severe d’Europa. «Nel 2003 – ha precisato Piller – un dipendente tedesco medio con 45 anni di versamenti prendeva il 53,3% dell’ultima retribuzione. La previsione è che nel 2020 si arrivi al 46% e nel 2030 al 43%».
Anche le tasse sono tra le più basse d’Europa: basti pensare che le pensioni inferiori ai 16.500 euro rientrano nella no tax area e che – ad esempio – quelle fino a 20 mila euro hanno un’aliquota dell’8,4%, contro il 20,5% italiano. In ultimo, c’è un’altra differenza di non poco conto rispetto al nostro Paese: a partire dal 2004, in Germania, le pensioni non sono indicizzate all’inflazione, ma allo sviluppo del salario netto dei dipendenti. In sostanza, se non aumentano le retribuzioni dei lavoratori non crescono nemmeno le pensioni.
È altrettanto vero, però, che con questa formula gli assegni beneficiano dei miglioramenti dovuti alla produttività. «Nel 2017 – ha concluso Tobias Piller – le pensioni sono cresciute di circa il 5% per via della buona performance dell’economia registrata negli ultimi anni». Nonostante questo incremento, il tema degli importi previdenziali è sempre più sensibile, tanto che, a dicembre scorso, la Große Koalition ha proposto l’aumento graduale delle pensioni del 38% da qui al prossimo ventennio, lasciando pressoché invariate le trattenute in busta paga. Quel che è certo è che qualche ombra rischia di oscurare il futuro del sistema. Ma fino a che punto?
Da Berlino, il ministero del Lavoro e degli Affari sociali sottolinea come il Paese stia vivendo una grande trasformazione demografica: l’aspettativa di vita – che nel triennio 2015-2017 ha raggiunto 78,4 anni per gli uomini e 83,2 per le donne – rappresenta la sfida più importante da fronteggiare. Se oggi, infatti, ci sono tre lavoratori a supporto di ogni pensionato, nel 2070 ce ne saranno solo due.
L’ultimo ranking stilato dalla Stiftung Marktwirtschaft, la Fondazione economia di mercato di Berlino, sulla sostenibilità dei conti pubblici degli stati dell’Unione europea, parla chiaro: sulla Germania pesa un debito implicito in crescita, dovuto proprio all’invecchiamento della popolazione e ai costi della sanità, che graveranno sulle giovani generazioni. La sostenibilità del sistema pensionistico tedesco è un elemento di debolezza messo in evidenza anche nel decimo Melbourne mercer global pension index, che ha analizzato l’efficienza previdenziale di 34 Paesi nel mondo. Per questo gli economisti hanno criticato l’apertura a nuovi ritiri anticipati, come il provvedimento firmato da Andrea Nahles, ministro del Lavoro del precedente governo di Große Koalition e oggi presidente della Spd, che nel 2014 ha promosso l’aumento della pensione a tutte le donne diventate mamme entro il 1992 e l’abbassamento dell’età pensionabile ai 63enni con 45 anni di contributi.
In Germania è molto diffuso il sistema di previdenza complementare, il secondo pilastro al quale i cittadini si affidano per avere una vecchiaia più sostenibile
Malgrado il campanello d’allarme dell’allungamento delle aspettative di vita, che tuttavia riguarda l’intero mondo occidentale, il Paese può contare su alcuni punti fermi: una spesa pubblica per la previdenza contenuta, che rappresenta il 13-14% del Pil nazionale, un basso tasso di disoccupazione, che nel 2018 ha toccato i minimi storici registrando un 5,2% e il numero degli occupati che, solo negli anni di Angela Merkel, è cresciuto di 5 milioni di unità.
Senza contare che secondo il Destatis – il nostro Istat – nel 2016 si è registrato il livello di natalità più alto degli ultimi vent’anni, dovuto a una maggiore presenza di migranti, a misure di supporto alle giovani famiglie e al trend economico positivo. Quindi, nonostante la stessa Banca centrale europea abbia rilanciato più volte e con forza l’appello affinché i paesi dell’Unione adottino politiche di allungamento della vita lavorativa, nulla fa presagire – almeno nell’immediato – riforme pensionistiche peggiorative per i cittadini. Soprattutto, non dopo l’ultima batosta elettorale incassata lo scorso ottobre dalla CDU, il partito della Cancelliera.