Abbiamo davvero bisogno degli immigrati per tenere in piedi il sistema di protezione sociale italiano? A distanza di qualche mese dalla discussa dichiarazione del presidente Inps Tito Boeri, il Quinto Rapporto sul Bilancio Previdenziale italiano ci aiuta a fare ulteriormente chiarezza sul tema, con dati di assoluto rilievo che, ancor di più, invitano alla prudenza.
I dati ci dicono infatti che le migrazioni non costituiscono una soluzione ai problemi che affliggono l’Italia. Né sotto il profilo della natalità: illusorio credere che il processo di invecchiamento possa arrestarsi semplicemente grazie all’apporto degli stranieri, che oltretutto già mostrano sul fronte della natalità i primi segnali di avvicinamento al modello italiano. Né sotto il profilo occupazionale, dove l’apporto di migranti, all’interno di un quadro che – va detto – mostra comunque segnali di miglioramento, non sembra in grado di contrastare i veri difetti che stanno alla base del nostro tasso di disoccupazione, adattabilità e specializzazione.
Si stima infatti una carenza di circa 65 mila specializzati richiesti dall’industria e qualche centinaio di migliaia dalle attività artigianali e di servizio, solo in parte colmati dagli immigrati.
L’immigrazione è per sua stessa natura anche investimento, ma l’Italia non può paragonarsi a Paesi come la Germania, capace di investire sulle competenze acquisite nei Paesi d’origine. I dati dicono infatti che le migrazioni non costituiscono una soluzione ai problemi che affliggono il nostro Paese: né sotto il profilo della natalità, né sotto il profilo occupazionale.
Certo, l’immigrazione è per sua stessa natura anche investimento, ma l’Italia non può paragonarsi a Paesi come la Germania, capace di investire sulle competenze acquisite nei Paesi d’origine, se si considera che da noi gli immigrati sono spesso occupati come manovalanza a basso prezzo, quando non addirittura in nero, con l’effetto ancor più negativo di abbassare gli standard lavorativi per tutti e di alimentare l’evasione fiscale e contributiva che poi è, insieme a una spesa per assistenza che cresce a ritmi insostenibili, una delle vere minacce alla futura sostenibilità del sistema di welfare italiano.
Ecco perché in questo momento i costi dei fenomeni migratori per l’Italia (accoglienza, sistema sanitario, scolastico e sistema socio-assistenziale) sembrano essere superiori ai benefici in termini contributivi, demografici e di forza-lavoro.
Senza poi trascurare appunto un altro elemento di massima importanza: il Quinto Rapporto ci conferma che il sistema previdenziale italiano è in sostanziale equilibrio. Mentre la spesa pensionistica pura è aumentata dal 2015 al 2016 del solo 0,22%, il rapporto attivi-pensionati ha toccato nel 2016 quota 1,417, dato migliore dal 1997 (primo anno utile al confronto).
Non siamo sulla luna, ma con un obiettivo concretamente raggiungibile di 1,5 attivi per pensionato iniziamo ad avere un sistema più sostenibile: c’è insomma margine interno per la stabilizzazione del sistema, indipendentemente dai migranti che arriveranno. A patto però di investire risorse nella giusta direzione: investimenti mirati in sviluppo e in grado di sostenere lavoro, aumento di produttività e, quindi, una crescita del PIL.
Rovescio della medaglia, altrettanto utile a evidenziare alcune delle criticità più evidenti del sistema di protezione sociale del nostro Paese, è indubbiamente quello delle prestazioni pensionistiche liquidate all’estero: per il 2016, il Rapporto Itinerari Previdenziali ne conta 370.000, per un importo complessivo pari a circa 1 miliardo di euro.
All’interno di questo quadro, un fenomeno di grande interesse sociale, per quanto ancora non molto rilevante per dimensione, è indubbiamente la migrazione dei pensionati italiani verso l’estero, che ci pare di poter ricondurre a due ragioni principali: il costo della vita e i possibili vantaggi fiscali.
Nel primo caso, si tratta di solito pensioni di importo modesto, integrate al minimo o tutt’al più con maggiorazione sociale, dunque pensioni non soggette a tassazione già in Italia. Nel secondo, invece, la scelta di trasferirsi deriva proprio dal carico fiscale imposto dall’Italia su pensioni di importo medio-alto (con aliquota marginale al 43%) che, nel Paese estero scelto, incide normalmente in misura di gran lunga inferiore o non incide affatto, in virtù di convenzioni che evitano la doppia imposizione.
Nel periodo d’imposta 2016 le richieste sono state oltre 55.000: Australia, Germania, Svizzera, Canada, Belgio e Austria i Paesi che registrano la maggior concentrazione di pensionati detassati parzialmente o integralmente.
Per il 2016 l’ammontare totale dell’Irpef sulle pensioni è stato pari a 49,773 miliardi di euro: su poco più di 16 milioni di pensionati, oltre 8,2 milioni evidenziano però prestazioni tra 1 e 2,5 volte il minimo sulle quali, per via anche delle detrazioni, non pagano imposte; altri 2 milioni (tra 2,5 e 3 volte il minimo) pagano un’imposta modestissima.
E così via a seguire, con il risultato che restano solo 3 milioni di pensionati che si accollano la gran parte dei 29,6 miliardi di Irpef: in buona sostanza, l’intero onere fiscale grava sul 20% dei pensionati (31% se si considera lo scaglione da 3 a 4 volte il minimo) e, in particolare, su quei 1,4 milioni che hanno pensioni sopra i 3 mila euro lordi al mese.
Tanto basta per capire la scelta di spostarsi all’estero. E, ancor di più, ciò dovrebbe far molto riflettere tutti coloro che propongono in modo acritico aumenti delle pensioni basse, poiché la maggior parte dei pensionati esenti da imposte, ne ha pagate molto poche, o addirittura nulla, quando era un lavoratore attivo.
Il fatto che il 50% dei pensionati sia assistito denota tutt’al più, ancora una volta, un elevatissimo livello di evasione fiscale e contributiva, nonché una sostanziale incapacità dello Stato di governare il fenomeno.
* Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali