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Al voto, al voto

Elezioni europee e presidenziali americane: le due sponde dell’Atlantico sono chiamate alle urne per scegliere visioni e politiche da seguire. Mentre nel resto del mondo sono forti le spinte anti-occidentali.

Il voto di giugno per il Parlamento europeo è importante perché porterà anche al rinnovo della Commissione – l’organo che darà l’impulso sia legislativo che esecutivo in settori importanti come la concorrenza, le nuove tecnologie, il commercio -. I sondaggi suggeriscono un complessivo spostamento verso destra, ma le implicazioni politiche di questa tendenza andranno verificate: gli attuali partiti di ispirazione conservatrice sono in alcuni casi nazionalisti ed euroscettici, ma in altri più marcatamente populisti (e in realtà meno conservatori su temi socio-economici). I partiti progressisti, dal canto loro, hanno perso compattezza e coerenza programmatica, oscillando tra posizioni di apertura all’innovazione o all’interdipendenza transnazionale e reazioni di chiusura protezionistica a tutela di alcune fasce sociali. Il trend prevalente degli ultimi anni sembra essere, in effetti, non tanto una netta spaccatura lungo il vecchio asse destra/sinistra, ma piuttosto una forte volatilità dell’elettorato, in cerca di soluzioni rapide e poco realistiche a fronte di un’offerta politica che incoraggia questi istinti: candidati e movimenti appaiono tentati dal semplificare questioni complesse e orientati a presentare leadership personalistiche. In generale, il tratto tipico delle ultime tornate elettorali, che purtroppo si confermerà in questa del 2024, è una crescente sfiducia nelle istituzioni (europee e nazionali) e perfino nei meccanismi democratico-liberali di mercato (inteso come mercato regolato) – che sono poi l’essenza dell’integrazione europea.

Gli elettori hanno certo il diritto di scegliere non solo i candidati ma anche i temi su cui concentrare le loro valutazioni. Ma alcune questioni si impongono all’attenzione e sembrano decisive per il voto di giugno: le diseguaglianze socio-economiche, aggravate da alcune tendenze tecnologiche da gestire con cautela e lungimiranza; l’esperienza della pandemia rispetto a una vera condivisione degli strumenti di politica sanitaria e più ampiamente di gestione delle emergenze; una politica energetica comune e di una politica industriale in senso più generale, anche per meglio orientare la transizione verde; una politica di sicurezza e difesa coerente se non del tutto comune, che consenta di perseguire obiettivi condivisi di politica estera. Resta da vedere se una visione non solo “difensiva” ma perfino angosciata prevarrà nella percezione degli elettori, ad esempio sull’immigrazione – tema su cui un atteggiamento soltanto “sicuritario” è peraltro in contrasto con le necessità di un’area del mondo, come la Ue, cha sta invecchiando e che fatica a promuovere innovazione e creatività. Sullo sfondo ci sono poi grandi domande ancora senza risposta, come il futuro degli allargamenti a nuovi membri (Balcani occidentali, Ucraina, Georgia) e la riforma profonda dell’intero modello industriale e di welfare che in fondo poggia tuttora su quello tedesco, ormai in evidente difficoltà. Va ricordato che negli ultimi vent’anni circa è proprio la Ue ad aver perso peso e competitività su scala globale, a fronte della tumultuosa crescita cinese (che solo ora rallenta nettamente) e della tenuta dell’economia americana.

Qui il voto parlamentare non potrà certo fornire soluzioni, di per sé, ma i segnali che emergeranno saranno indicativi per le future leadership europee: è loro responsabilità tracciare una rotta e fare scelte difficili da spiegare all’opinione pubblica.

Negli ultimi vent’anni l’Ue ha perso peso e competitività su scala globale, a fronte della tumultuosa crescita cinese (che solo ora rallenta nettamente) e della tenuta dell’economia americana

Pochi mesi più tardi, il voto presidenziale negli Stati Uniti sarà una sorta di referendum sul sistema politico e istituzionale americano, alla luce dello scontro durissimo tra i sostenitori di Donald Trump e i suoi avversari politici, che non sono soltanto Joe Biden e gli elettori del Partito Democratico, ma in pratica l’intero establishment in senso bipartisan: non si possono infatti sottovalutare i vari procedimenti giudiziari in corso e il fatto che alla Corte Suprema è stato richiesto di impedire al candidato oggi favorito nei sondaggi di correre per la presidenza.

Il “fenomeno Trump” ha sovvertito quasi tutte le regole della democrazia americana, dall’uso dei media al linguaggio politico, dagli attacchi espliciti contro quasi tutti gli organi costituzionali fino alla presunzione di essere praticamente al di sopra della legge. Il Partito Repubblicano ha smarrito la sua anima tradizionale per seguire la popolarità di un singolo leader che ha una visione totalmente egocentrica della politica e ha dimostrato di voler forzare i limiti del ruolo del Presidente fino a un punto di rottura. Il Partito Democratico ha reagito a questa sfida rimandando un ricambio generazionale (una leadership post-Obama che ne raccolga l’eredità e ne corregga le carenze) che si sarebbe realizzato già con le presidenziali del 2020 in assenza di Trump. Il sistema partitico sembra dunque bloccato in uno scenario che contrappone due candidati impopolari e appesantiti da un ingombrante bagaglio personale – anche se in modi assai diversi, visto che Biden non è sotto processo per gravi reati ma è incapace di raccogliere consensi tra molti dei suoi elettori “naturali”. Lo scarso tasso di approvazione dell’attuale Presidente è aggravato dalla candidatura come indipendente di Robert F. Kennedy Jr., che pur avendo posizioni piuttosto eterodosse su varie questioni può ragionevolmente puntare a sottrarre alcuni voti proprio al Partito Democratico.

Il quadro che emerge fino è insomma anomalo, non soltanto perché anche Trump registra un “unfavorability rating” superiore al 50% (riflettendo una notevole insoddisfazione degli elettori) ma perché i personaggi più influenti in entrambi i partiti (membri del Congresso, Governatori degli Stati, grandi finanziatori) sono visibilmente preoccupati per l’affidabilità dei due protagonisti della campagna in corso. Le presidenziali di novembre giungono quindi in un contesto di crisi percepita, nonostante l’economia americana abbia finora evitato una recessione a lungo prevista e stia anzi realizzando buone performance in vari settori-chiave. Il problema per Biden è che non riesce a intestarsi questi relativi successi, e per Trump che non riesce a offrire una visione costruttiva per andare oltre le recriminazioni e il vittimismo. Intanto, la frattura lungo lo spettro politico si è tramutata in una faglia anche culturale, per cui gli americani delle due “sponde” non sono disposti a riconoscersi davvero come legittimi avversari politici in un alveo di regole condivise. Vedremo se il voto del 2024 innescherà comunque una dinamica di cambiamento positivo, come è accaduto in passato alla grande democrazia d’oltreoceano.

Gli Usa e l’Ue devono riconoscere che l’interdipendenza globale non si può evitare né ignorare: la chiusura a riccio non è un’opzione realistica né vantaggiosa

C’è comunque almeno un elemento comune tra Stati Uniti e Unione Europea: la grande sfida posta da un assetto globale che certo non è stabile e vede molti conflitti violenti, oltre a un’esplicita rivendicazione di vari attori che contestano il mondo occidentale, e che richiede invece un alto grado di coordinamento e cooperazione internazionale per gestire la complicata transizione verso modelli produttivi ambientalmente sostenibili. In sostanza, sia gli Usa che la Ue devono riconoscere che l’interdipendenza globale non si può evitare né ignorare: la chiusura a riccio non è un’opzione realistica né vantaggiosa. Neppure per i sistemi politici occidentali, che su scala mondiale restano quelli con la migliore tutela dei diritti civili e con le economie più tecnologicamente avanzate.

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